Missioni Consolata - Novembre 2014

frontiere. Senegal e Mali hanno preso misure pro- tettive e questo ha ridotto le loro importazioni dan- neggiando la già fragile economia guineana. Simona spiega come la presenza degli operatori sia motivo di speranza: «I nostri partner sono molto contenti che non abbiamo chiuso i progetti. Vuol dire che non c’è solo l’Ebola in Guinea. Loro hanno la sensazione di essere stigmatizzati: c’è una malat- tia importante e non la sanno gestire. Il problema è che non hanno i mezzi e le competenze, mentre oc- corre un buon dispositivo sanitario. Solo negli ul- timi tempi la comunità internazionale sta stan- ziando ingenti somme per fermare l’epidemia, men- tre su malattie endemiche come malaria e tuberco- losi, per le quali la gente muore, i soldi non ci sono». In Guinea l’Ebola ha fatto ancora più sentire la di- sparità tra due mondi: «La gente capisce che c’è un intervento solo perché europei e statunitensi hanno paura che la malattia arrivi nei loro paesi». Inoltre: «Si sentono quasi in colpa per il loro senti- mento di solidarietà, come dire: non riusciamo a bloccare la malattia perché siamo così. Mentre in- vece è un loro punto di forza». LIBERIA L’ ESERCITO CONTRO IL VIRUS L a Liberia è un piccolo paese in Africa dell’O- vest con una superficie che è circa un terzo di quella dell’Italia. Ha una storia singolare per- ché è nata da una strana ricolonizzazione, iniziata nel 1821, da parte di schiavi emancipati statunitensi su un territorio già colonia britannica. Negli Usa solo gli stati del Nord avevano abolito la schiavitù, che sarebbe stata eliminata anche al Sud dopo la guerra civile (1861-1865). I neri americani giunti in Liberia erano molto diversi dagli africani, per lin- gua, usi e cultura. Costituirono l’élite di potere e sfruttarono i nativi. La Liberia di oggi mantiene un legame molto stretto con gli Usa. È il paese più col- pito dall’epidemia di Ebola e Barak Obama ha an- nunciato l’invio di 3.000 soldati e l’apertura di una base di comando regionale a Monrovia, la capitale. La base dipenderà da Africom, il comando Usa per l’Africa. Nel suo discorso del 16 settembre scorso, Obama ha paragonato questo intervento a quello Usa ad Haiti, all’indomani del terremoto del 2010. Anche quella fu un’operazione di forza, completa- mente ingiustificata. Oggi suona strano che per combattere un evento sanitario servano i marines , considerando poi che i soldati sono l’unica risorsa che negli stati africani non manca. S uor Annella Gianoglio, missionaria della Conso- lata di Savigliano (Cn), vive nel paese dal 1977. «Siamo in tre missioni - ci racconta -: Ganta al con- fine tra Guinea e Liberia, Harbel a 80 km da Mon- rovia e Buchanan». In tutti i posti si è propagata l’e- pidemia. «Il primo morto lo abbiamo avuto ad Har- bel. Una donna era andata ad assistere un amma- lato, così ha preso l’Ebola. Aveva figli e marito. Poi sembrava che l’epidemia si fosse fermata, allora la gente non aveva molta paura, poi invece è esplosa. Adesso c’è ovunque in Liberia. Abbiamo una clinica a Buchanan: è morta una persona, poi l’infermiera che l’assisteva». «La gente pensa sempre che la morte naturale non esista, ma sia causata da qualcuno. Il giu giu , una specie di malocchio. Ad esempio a una convention di una chiesa protestante ci sono stati 36 morti. Il pastore aveva negato che fosse l’Ebola, dicendo che l’acqua del pozzo era stata avvelenata. Per questo motivo all’inizio nessuno seguiva le pre- cauzioni. Adesso almeno bruciano i cadaveri. Un altro problema è che continuano ad andare a cacciare e pescare e a nutrirsi di selvaggina. E que- sto è fonte di contagio». S uor Annella ha una profonda conoscenza del po- polo liberiano, e si vede che anche lei è spiazzata di fronte al fenomeno. «Quando la prendi è molto probabile morire. Ma c’è anche molta confusione Monrovia, Liberia: donne si fermano a disinfettarsi le mani prima di entrare nell’ospedale John Fitzgerald Kennedy della capitale liberiana (settembre 2014). © Dominique Faget / AFP

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