Missioni Consolata - Agosto/Settembre 2012

scriminante della sua relazione con la religione uffi- ciale e con il «sapere» comune della religione che si ferma alla superficialità. Per almeno 121 volte ricorrono nel IV vangelo il verbo «òida - conosco/so» e derivati. A questo verbo biso- gna prestare attenzione perché esprime un universo semantico di straordinaria portata anche teologica. Si tratta di un verbo irregolare perché nel NT si trova solo in alcuni tempi: il perfetto secondo indicativo (che ha valore di presente: «conosco/so»); il piucche- perfetto secondo indicativo (che ha valore di imper- fetto: «conoscevo/sapevo»); l’imperativo nelle sole se- conde persone («sappi – sappiate»); il congiuntivo presente, escluse le terze persone («che io sappia»); l’infinito («sapere») e il participio ( sapendo ). Il verbo si forma dalla radice «[e]id-» da cui proviene il tempo aoristo del verbo «horà ō - io vedo», da cui deduciamo che c’è corrispondenza tra «sapere/cono- scere» e «vedere». La conoscenza, cioè la sperimen- tazione di un fatto, di una persona, di un evento, di un sentimento è la visione di essa a un livello profondo: contemplare e sperimentare, vedere e toccare sono la stessa cosa perché procedono dalla stessa fonte che è la conoscenza vissuta, la sapienza. Mai, infatti, nella Bibbia la conoscenza e la sapienza sono eventi astratti, avulsi dall’esperienza, al contrario, essi sono la centralità dell’esistenza che si snoda tra visione e sperimentazione, tra contemplazione ed evento visi- bile. Conoscere è vedere la realtà nella sua essenza interiore e intima. Non a caso in ebraico il verbo «yadàh - conoscere» indica anche l’atto sessuale tra uomo e donna: la sperimentazione vitale che è l’a- more vissuto è l’atto di conoscenza più profondo della esperienza umana. L’architriclino «non sapeva» perché era perduto nella superficialità di un evento nuovo che non ha saputo leggere, gustare, vedere e assaporare in tutta la sua pregnanza e sapienza. Egli si limita ad assaporare il gusto ovvio, ma non riesce ad andare al «senso» di quel gusto «bello» che avrebbe dovuto aprirgli le porte del cuore alla comprensione della storia antica che pur conosceva, come vedremo. Egli è fermo all’e- pidermide di ciò che appare e non s’interroga sul gu- sto interiore che quel vino porta in sé come messag- gio-anticipo di un tempo nuovo. Non sapendo gustare la novità che cambia il corso di quello sposalizio, egli perde di vista e gusto anche il suo passato e la storia da cui proviene. Le apparenze non solo spesso ingan- nano, ma sovente, molto sovente, sono la negazione della verità e della stessa realtà che vorrebbero sve- lare. «SAPERE», DISCRIMINANTE DELLA SALVEZZA Due capitoli più avanti, al bordo del pozzo di Giacobbe, una donna di Samaria, estranea e nemica, pur nella diffidenza del momento si lascia interrogare dal- l’uomo nuovo che le sta di fronte e accetta di dialogare con lui, lei samaritana con un giudeo e per giunta uomo: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa» (Gv 4,25). La donna considerata reproba è proietata verso il Messia che ancora non vede, è pronta ad accoglierlo, a differenza dell’architriclino, emblema dei responsa- bili della religione ufficiale, che invece si ostina nella sua chiusura: «Non sapeva di dove veniva». Anche il paralitico alla porta delle Pecore, guarito sulla parola di Gesù «non sapeva chi fosse» (Gv 5,13); ma quando, poco dopo lo incontra e lo riconosce, corre dai capi Giudei a riferire di «sapere chi è» ed essi invece di co- gliere l’evento di novità, tramano persecuzione contro di lui perché si fermano a difendere «il sabato» (Gv 5,14-18). Gli uomini di qualsiasi chiesa sono più inte- ressati a salvare lo « status quo » delle loro istituzioni che generalmente si identificano con i loro privilegi, piuttosto che aguzzare la vista per cogliere «i segni» di un tempo nuovo che avanza e non torna mai indietro. Pure il cieco nato dapprima non sa di dove sia Gesù che lo ha guarito (cf Gv 9,12), ma di un fatto è certo: egli ha sperimentato, ha visto che prima «ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9,25). I capi vorrebbero convincerlo che Gesù è un peccatore, ma egli sta fermo sull’unica conoscenza di cui dispone: la sua esperienza contro la quale nessun ragionamento, nessun principio reli- gioso può avere la meglio perché egli da quaranta meno un anno era cieco e ora ha di nuovo la vista. Egli stesso è la prova che la sua conoscenza di Gesù non può fermarsi all’apparenza e alle esigenze della reli- gione, ma va oltre l’inimmaginabile: se lo ha guarito ci deve essere qualcosa di grande che sfugge a lui, ma sfugge in modo drammatico anche «ai Giudei», a co- loro cioè che avrebbero dovuto indirizzarlo a leggere l’evento vissuto e a dargli un nome. Essi invece, che si credono sapienti perché «gestiscono Dio» e s’illudono di conoscerlo solo perché conoscono a memoria i passi della Scrittura, «non sanno» nulla di Dio: si può essere efficienti uomini di religione ed essere al tempo stesso lontani da Dio perché religione e Dio sono incompatibili. La religione esige la pratica, Dio richiede la fede. La religione si nutre di rituali ripeti- tivi e morti, la fede vive di conoscenza e gusto dell’e- sperienza di Dio. La religione è esteriore, Dio vive e si rivela solo nell’intimità del profondo. Lo stesso av- viene per Marta di fronte alla morte del fratello Laz- zaro (cf Gv 11,22.24). a) Frequenza e pratica non danno garanzie «Anche Giuda il traditore, conosceva quel luogo, per- ché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli» (Gv 18,2). La consuetudine non è motivo sufficiente di conoscenza: si può frequentare lo stesso luogo per una vita, si può «andare» sempre in chiesa, si può «dire» da una vita il breviario, si può stare da una vita e oltre in un monastero, in un convento, in una par- rocchia, si può essere cioè consuetudinari abituali e fedeli, praticanti a orario fisso, ma ciò non significa che si sperimenta colui che «sta in quel luogo». Per conoscere «quel luogo» come « tòpos », cioè come spazio di incontro e di esperienza bisogna aprirsi al- l’inverosimile e all’imponderabile, essere disposti a lasciarsi abitare dal « kairòs - evento propizio» per po- tere assaporare la Shekinàh che viene a posare la sua dimora in mezzo a noi. In questo contesto, pregare è illimpidirsi lo sguardo per vedere e vedere è abituarsi a sperimentare per giungere a una comunione fisica che immerga nella contemplazione di eventi e fatti inauditi e anche sperimentati. Se davanti a noi passa il calice del vino «bello» e ci limitiamo a dire che è «molto buono», senza coglierne la personalità di chi quel vino ha portato, allora possiamo anche essere specialisti, tecnici della religione, senza necessaria- mente sapere cosa significhi essere credenti nel e col cuore. Si può essere religiosi aridi, ma mai credenti senza sentimento. b) Il desiderio del «mio Signore» Maria di Màgdala è un esempio della fede che si con- suma nell’esperienza/conoscenza: ai due personaggi AGOSTO-SETTEMBRE 2012 MC 33 MC RUBRICHE

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