Missioni Consolata - Dicembre 2009

DOSSIER 40 MC DICEMBRE 2009 getto semestrale, l’ospitalità ai ri fugiati si concluse e l’Arci non eb be nessuna intenzione di conti nuare un discorso più serio e du raturo. Con l’arrivo dell’inverno i problemi tornarono più tangibili di prima. Nell’autunno del 2007, si decise di non mendicare più le so luzioni estemporanee del Comu ne, ma di occupare l’ex caserma dei vigili urbani in via Paganini 30 (nei pressi di via Bologna)». Allora qual è il Dna del Comita- to? «Far emergere la voce di chi non riesce a farsi ascoltare, con prati che magari anche non consone a quella che è la politica ufficiale, ma questa per noi è politica e passa anche attraverso le lotte, le occu pazioni degli stabili, delle case po polari, senza abbassare la testa. Non fa parte del nostro Dna far dell’assistenzialismo che, tra l’altro, senza fondi non possiamo certo fare al meglio. Non ci inte ressa proteggere il più debole in quanto tale ma supportare chi de cide di intraprendere un percorso di rivendicazioni, ben consci che sono esseri autonomi con una propria ideologia, delle convin zioni di base e in grado di difen dersi da soli. Va chiarito che il no stro obiettivo è la conquista di una nuova rete di diritti per tutti e non per il singolo gruppo che ha lottato». Come proseguiva il lavoro di op- posizione verso Comune e isti- tuzioni? «La prima opposizione verso il Comune fu di andare a interrom pere l’assessore ai servizi sociali Borgione durante una conferenza sul rapporto statistico sugli stra nieri nel territorio, proprio per da re visibilità alla loro vicenda. Su tut ti i media uscì la loro storia e fu evi dente la necessità di far rispettare i loro diritti. Continuammo con de terminazione a farci sentire, anche attraverso manifestazioni e scon tri di piazza per richiedere che fos se risolto il nodo spinoso della re sidenza e tante altre problemati che, tra cui la tessera sanitaria. Il metodo “duro” a qualcosa è servi to e oggi sono almeno provvisti della tessera sanitaria, anche se le circolari cambiano e occorre sem pre monitorare la situazione». Nel 2008, avviene l’occupazione rio assieme a una dottoressa e a due infermieri. La sua voce ci chia risce subito che l’impegno del Co mitato nei confronti dell’argomen to sanità non ha avuto nulla a che vedere con la carità ma con la con vinzione che il diritto alla salute debba essere riconosciuto univer salmente. «Quando abbiamo iniziato a oc cuparci del diritto alla salute dei rifugiati di via Bologna, ci siamo rivolti al Centro Isi ( Informazione e salute immigrati ) di Torino, na to per gli immigrati clandestini e già in questa prima tappa ci sia mo resi conto di alcuni paradossi: se il sistema sanitario respingeva i rifugiati in quanto non residen ti, all’Isi venivano respinti poiché in possesso del permesso di sog giorno poiché rifugiati e non clandestini. È stato necessario un incontro in Regione, affinché l’Isi entrasse in vigore anche per i ri fugiati». Difficoltà linguistiche e culturali, pregiudizi razziali e tanta paura del diverso emerge dal racconto di Barbara che ha seguito e continua a seguire le vicende dei rifugiati, accompagnandoli emotivamente e praticamente: dai consultori, al l’Asl di zona, agli esami in ospe dale. Spesso considerata, dal per sonale ospedaliero o dagli impie gati degli uffici, un soggetto “particolare” in quanto la defini zione “amica”, slegata da una pro fessionalità certa, (come media trice o quant’altro,) è difficile da accettare, quasi incomprensibile. «L’Isi, pensato come un servizio d’urgenza, non era una soluzione alla questione sanitaria: lunghe code e l’impossibilità di avere un medico di base specifico, senza escludere la difficoltà di poter avere a disposizione mediatori ad hoc. La sensazione era che più di prendersi cura della salute di quel la persona ci si preoccupasse prin cipalmente che il rifugiato/immi grato in questione non avesse nul la di infettivo da trasmettere alla popolazione autoctona. Il ping pong con i pronto soccorsi era poi svilente. Quando si chiamava l’au tombulanza e si specificava la na zionalità del richiedente soccorso ci si sentiva domandare: “Ma è sta ta una rissa?”. Per non parlare dei tanti esami clinici mai consegnati per l’impossibilità del paziente di pagare il ticket e con la complicità degli operatori che fingono l’ine dell’ex Clinica San Paolo. Con quali modalità? «Un numero notevole di soma li, una comunità coesa a cono scenza della storia di via Bologna ci chiese di replicare l’esperienza. Erano circa 200 persone e, con tutte le incertezze del caso trat tandosi di una casa privata, deci demmo di occupare corso Pe schiera. L’interno era deplorevo le, in 10 anni di abbandono la Clinica era stata letteralmente “sciacallata”: rubinetterie vendu te, nessun allaccio della corrente e siringhe ovunque. Abbiamo la vorato parecchio per renderla ac cettabile e da lì inizia l’esperienza della Clinica, un iter non facile, in cui la solidarietà di molti ha favo rito la sopravvivenza interna. So pravvivenza difficile per via del freddo, della fame e della scarsa salubrità ambientale». Se dovessi fare una fotografia del sistema politico e dell’infor- mazione in tutta questa vicenda? «Il sistema ha dimostrato tutta la sua caducità nel voler rispar miare i fondi del Settore sociale, e inoltre è stata ovvia una totale mancanza di volontà politica nel cercare delle soluzioni al proble ma. Il perché è lampante: queste persone non portano vantaggi alla politica, non hanno diritto di voto ad esempio e, inoltre, complice un’informazione amante dello scoopmorboso, sono sempre sta te enfatizzate le poche situazioni negative (la piccola rissa o la col tellata per il posto letto) creando lo spauracchio dello “straniero”». E adesso? «L’11 settembre gli abitanti di corso Peschiera sono stati trasferi ti. Non si è trattato di uno sgom bero ma di un trasloco su base vo lontaria. Alcuni, infatti, perman gono nell’occupazione. Nel frat tempo, la battaglia per i loro e i no stri diritti continua...». C on l’occupazione di via Bolo gna nasce, all’interno del Co mitato, un gruppo sanitario che lotta per il diritto alla salute. «Abbiamo capito molto in fretta che questo diritto era di fatto ne gato dalle istituzioni, dalla buro crazia e dal razzismo». A parlare è Barbara Ferussi, 33 anni, operatri ce in un dormitorio comunale e membro attivo del gruppo sanita

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