Missioni Consolata - Dicembre 2019

Marco, Maida e i loro cinque figli, dalle Ande peruviane a Milano CON LA PORTA SEMPRE APERTA M arco e Maida Radaelli appartengono al- l’Operazione Mato Grosso (Omg), presente in Ecuador, Perù, Brasile e Bolivia, fin da giovani. Prima di conoscersi hanno fatto alcune esperienze all’estero: Marco in Ecuador e Maida in Perù, e quando si sono sposati, neanche trentenni, dopo due mesi sono partiti per 10 anni in Perù. Oggi vivono nella parrocchia di Ponte Lambro, Li- nate, zona Sud Est di Milano, e sono una Famiglia missionaria a km0 con i loro cinque figli, di cui le prime tre nate sulle Ande: Martina di 14 anni, Mar- gherita (11), Beatrice (9), Daniele (2) ed Elena (1). «Nel tornare ci eravamo chiesti quale sarebbe po- tuto essere il modo per vivere la missione anche qua in Italia», ci dice Maida per telefono. Maida, ci descrivi la vostra esperienza in Perù? «Vivevamo in una casa dell’Omg a Yungay, a 2.800 metri, in zona rurale sulle Ande, proprio ai piedi del Huascarán, la montagna più alta del Perù. Niente a che vedere con Ponte Lambro a Milano. Avevamo una scuola di falegnameria con un inter- nato dove c’erano 20 ragazzi scelti tra i più poveri dei villaggi vicini: vivevano insieme a noi e quindi passavamo tutta la giornata con loro. Dopo due anni abbiamo costruito una scuola: asilo, elementari e medie. Dalle 8 alle 16 avevamo con noi 300 bambini, ai quali davamo anche da man- giare. Tutto con l’aiuto dei volontari italiani. I professori erano peruviani, e poi c’erano volontari italiani che venivano anche solo per un mese, e da- vano una mano a insegnare». Quindi il vostro lavoro in Perù era quello educa- tivo. Non avevate un’altra fonte di reddito? «No. Non avevamo stipendio. Vivevamo anche noi con quello che veniva mandato dall’Italia. Poi ave- vamo delle donazioni private di parenti o amici che utilizzavamo per cose nostre». Che formazione avete? «Siamo infermieri tutti e due. Ci siamo conosciuti all’università. Abbiamo lavorato come infermieri cinque anni prima di partire». Cosa vi ha lasciato l’esperienza di condivisione continua con i ragazzi peruviani? «Una ricchezza molto grande. Le nostre figlie hanno respirato da sempre che la nostra famiglia non è chiusa. La porta di casa era sempre aperta. È sempre stata una famiglia molto allargata. Vuoi o non vuoi, i tuoi problemi, le cose che ti sembra di non riuscire a superare, passano in secondo piano. Condividere la giornata con altre persone ti fa ca- pire che non sei tu il centro del mondo. Le nostre fi- glie hanno visto con i propri occhi la povertà, materiale e non. Quando oggi diciamo: “Stai at- tenta a non pensare solo a te stessa”, ci capiamo. In Perù eravamo molto facilitati in tutto, perché non avevamo un lavoro che ci portava via durante il giorno, e quindi eravamo lì 24 ore su 24. Potevamo dedicarci agli altri sempre. In Italia la vita è più fre- netica e ti impedisce di fare quello che vorresti: ci sono gli impegni fissi come la scuola, il lavoro, e quindi poi devi gestire il tempo che ti rimane». Ogni tanto sentivate il bisogno di avere uno spa- zio solo vostro, di famiglia? «Ce lo chiedono sempre. Certo: avevamo il nostro spazio con una piccola cucina e le nostre stanze. A volte venivano a bussare, però era sottinteso che se eravamo nel nostro spazietto, dovessero tratte- nersi. Poi in realtà passavamo in casa pochissimo tempo. Eravamo sempre insieme ai ragazzi». 46 MC DICEMBRE2019 D © Marco Radaelli © Marco Radaelli

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