Missioni Consolata - Marzo 2019

pieni. Se noi pensiamo che, dopo morta, una persona diventi ce- nere, gli Yanomami agiscono cre- mando i cadaveri e mescolando nel cibo le ossa polverizzate. Di qui si è arrivati a sentenziare: gli Yano- mami mangiano i morti. Chi parla così non conosce bene la loro cultura, il perché delle cose che si fanno. È un peccato. Non sempre quello che io vedo e penso è giusto. Questa è una cosa che mi dà molto fastidio». Altra questione molto delicata è quella dell’infanticidio. Un al- tro elemento spesso usato per attaccare gli Yanomami come primitivi o peggio. Cosa ci può dire sull’argomento? «Per prima cosa, voglio dire che infanticidio è una parola abusata. In tutti questi anni tra loro, io ho visto quanto le donne yanomami curino i loro bambini. Si provi a im- maginare la vita nella foresta: tu devi andare a cacciare, cercare frutta, eccetera. Se hai bambini piccoli, devi pensare a come por- tarli con te. È molto comune ve- dere una Yanomami con un bimbo sulla schiena o sul davanti. Ricordo che un giorno venne una donna a chiedermi di accompa- gnarla al posto di salute per mo- strare che il suo bambino era morto: non voleva essere accusata di averlo ucciso. Io l’accompagnai. Se una donna ha già un bimbo pic- colo e rimane incinta, chiede a un’altra di tenerlo. Tra loro le donne si aiutano. Insomma, prima di parlare di infanticidio, occorre pensare, perché il tema è molto delicato». La poligamia: responsabilità e sorellanza Rimaniamo in tema di bambini. Quanti sono in media per fami- glia? «In media sono cinque per fami- glia. Ma un uomo può arrivare an- che a dieci, perché può avere più mogli. Dipende dalla sua forza e capacità di lavorare. Chi ha più di una moglie, in genere ne ha due. L’uomo yanomami è responsabile, cioè si prende cura delle mogli e dei figli. Le mogli vivono assieme nella stessa maloca. Alla fine sono come sorelle». Lei parla di capacità di lavorare. Oggi ci sono Yanomami che la- vorano per il governo guada- gando uno stipendio. «Quando io arrivai le comunità ya- nomami non conoscevano i soldi. Per loro non avevano significato. Poi, quando alcuni indigeni diven- nero agenti di salute o microscopi- sti, cominciarono a ricevere una busta con il denaro. Nessuno pen- sava a depositarlo dato che si era in foresta. Dunque, lo riponevano in un posto qualsiasi e lì rimaneva. Poco a poco le cose sono cambiate e i giovani yanomami hanno impa- rato a maneggiare il denaro. Ri- cordo che, quando andavamo in città, io li accompagnavo nei ne- gozi. Se compravano - ad esempio - una camicia, davano i soldi e non aspettavano neppure il resto. Questa era una conseguenza del sistema della casa comune: quando hai quello di cui necessiti, il resto lo puoi condividere. Oggi i popoli indigeni conoscono i soldi. Sanno che, se ne hanno, possono ottenere qualcosa. E ciò può essere un pericolo». La terra degli Yanomami e l’invasione dei garimpeiros A parte la corruzione portata dai soldi dei bianchi, da fuori ar- riva un altro grande pericolo. «È così. Gli Yanomami vivono su un territorio molto buono: le piante crescono senza bisogno di troppe cure, c’è acqua, il clima è buono. Purtroppo, ci sono anche i minerali che attraggono molti ga- rimpeiros. Le garimpeiras sono un’eccezione». Si tratta di persone singole o di vere imprese? «Ci sono i garimpos che dietro hanno un padrone e ci sono altri che hanno un singolo minatore. Il fenomeno è molto complesso». Tra i tanti danni prodotti dai ga- rimpeiros, c’è l’inquinamento delle acque con il mercurio. Questo problema si è manife- stato anche alla Missione Catri- mani? «Già negli anni Novanta i missio- nari hanno scavato un pozzo per non bere l’acqua del fiume conta- minata da mercurio. In questi anni da noi c’è meno inquinamento, mentre è aumentato in altre zone. Certamente non possiamo dare per scontato che nel Catrimani non ci sia mercurio perché nella sua parte alta ci sono garimpos . Neppure siamo sicuri che l’acqua del nostro pozzo, che sta vicino al fiume, sia pulita». Senza strade è meglio Suor Mary, per tenere gli indi- geni lontani dai bianchi la solu- zione migliore è che non ci siano strade. Si tratta di un’af- fermazione esagerata? «Io credo che la strada non sia per gli indigeni. Sono persone che non hanno bisogno di strade perché sono popoli della foresta. Loro hanno… il Gps nella testa (lo ripete due volte ridendo e indicando con le dita la sua testa, ndr ). Quando cammino con loro, io a volte non riesco ad orientarmi, a capire dove sono. A volte non sono capace neppure di trovare il sole perché non riesco a vederlo. Allora mi chiedono: “Ma cosa cer- chi?” “Il sole”, rispondo io. “Ma come? È qui! Non lo vedi?”. E si mettono a ridere. La stessa cosa mi accade con i sentieri che io non vedo mentre loro sì. Voglio dire che ciò che io non vedo loro in- vece lo vedono. Dunque, la strada non è per i popoli indigeni, ma è per quelli come noi che non hanno il Gps nella testa». Nessuna strada la raggiunge però la Missione Catrimani è un luogo d’incontri. «È così. Pur nella loro grande sem- plicità, alla missione ci sono strut- ture che non si trovano altrove. Per questo è il luogo dove la Sesai, l’Isa, Hutukara e anche alcune fa- coltà universitarie federali orga- nizzano incontri. Siamo arrivati a ospitare anche 200 persone che dormivano ovunque». Donne indigene, donne yanomami Suor Mary Agnes, lei lavora con le donne indigene. Come sono state accolte le sue iniziative nella comunità yanomami? «All’inizio ci fu molta sorpresa. Gli uomini yanomami si chiedevano (suor Mary Agnes ride di gusto BRASILE 28 MC MARZO2019

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