Missioni Consolata - Marzo 2018

Non sarebbe stato più umano lasciarsi morire? «Assolutamente no. Noi eravamo vivi, i nostri amici erano morti! Facendo una valutazione strettamente religiosa, papa Paolo VI al nostro ritorno ci inviò un telegramma di sostegno, mentre un editoriale dell’ Osservatore Romano , l’autorevole quotidiano della Santa Sede, dava una lettura positiva del no- stro comportamento, vissuto - non dimentichia- molo - in una situazione terribile e del tutto eccezio- nale». Come avete fatto per l’acqua? «Facevamo sciogliere la neve al sole sui pezzi di la- miera. In quelle settimane abbiamo inventato molti oggetti impossibili riciclando quel poco che ave- vamo. Siamo persino riusciti a costruire degli oc- chiali per proteggerci dai raggi solari con la plastica dei finestrini dell’aereo». Grazie a che cosa vi siete salvati? «Un miracolo? Forse, ma non solo. Penso che riu- scimmo a sopravvivere perché eravamo un gruppo affiatato, una vera squadra, non solo sportiva ma anche cristiana. Pregavamo insieme ogni giorno. Il rosario era un appuntamento fisso. Eravamo tutti giovani benestanti e un po’ viziati, ma costretti a so- pravvivere in una situazione estrema diventammo tutti dei veri uomini». Nonostante siano passati tanti anni continuate a raccontare la vostra storia, non vi pesa il ri- cordo? «La nostra è una vicenda esemplare e unica. Ciò che abbiamo vissuto sta a dimostrare che gli esseri umani pur di sopravvivere sono capaci di superare qualsiasi tabù. Quando ci invitarono a raccontare la nostra esperienza in diverse occasioni la gente alla fine applaudiva. Tutti si complimentavano per la no- stra determinazione e la nostra voglia di vivere, che in fondo alberga nell’animo di tutti». Carlos Paez con il suo lavoro da pubblicitario ha passato la vita a insegnare ai manager delle multi- nazionali che cosa vuol dire trovare motivazioni per raggiungere obiettivi impossibili in situazioni estreme. Su questi temi qualche anno fa ha parte- cipato negli Stati Uniti a una serie di conferenze in- sieme ai pompieri di New York sopravvissuti al crollo delle Torri Gemelle l’11 settembre 2001. Il gruppo dei superstiti della tragedia delle Ande è ritornato più volte sul luogo dove si consumò il loro dramma, che nel frattempo è diventato meta di escursioni da parte di chi, attratto e affascinato da un’avventura unica e irripetibile, vuole ripercor- rere quei sentieri. Don Mario Bandera sopravvivenza e, credimi, tutto ciò che noi vole- vamo in quei giorni era sopravvivere, sopravvivere a qualsiasi costo!». Come prendeste la decisione? «Avevamo una radio, quella dell’aereo, che funzio- nava solo in ricezione. Potevamo ascoltare ma non chiamare. La sera del 23 ottobre sentimmo che le autorità avevano deciso di interrompere le ricerche. Per loro eravamo ufficialmente morti! Ricordo che stavamo sdraiati in quel che restava della fusoliera per proteggerci dal freddo e che Fernando si alzò e disse: “Ok, allora vado a mangiarmi il pilota”. In realtà ci stavamo pensando tutti da giorni, ma nes- suno aveva avuto il coraggio di rompere il tabù, di dirlo. Fernando e Roberto, che studiavano medi- cina, uscirono e dopo qualche minuto tornarono con dei pezzetti finissimi di carne. All’inizio fu orri- bile, qualcuno si rifiutò di inghiottirli». Tra i morti c’erano i vostri amici, gli altri gioca- tori della squadra degli «Old Christians», e an- che alcuni famigliari. «Da quasi cinquant’anni c’è un patto che nessuno di noi ha mai violato. Non riveleremo mai con quali corpi ci nutrimmo e con quali no». Avete mai ripensato alla vostra scelta? «Ho ripassato nella mia mente molte volte ciò che successe in quei giorni, non faccio altro. Mi con- vinco sempre più che non avevamo altra scelta. Noi eravamo morti per tutti e per uscire da quella situa- zione dovevamo resistere a qualsiasi costo». Che cosa avete detto ai familiari dei vostri amici che non ce l’hanno fatta? «Niente. A volte ci vediamo, parliamo. Ma c’è un tabù che anche loro rispettano. Sapere sarebbe inu- tile. Posso raccontare un particolare che può aiu- tare a capire la nostra determinazione: tra le vit- time lassù c’erano la mamma e la sorella di Fer- nando Parrado. Quando Fernando partì insieme a Roberto Canessa per andare a cercare qualcuno che potesse aiutarci, si avvicinò a me e mi disse: “Carli- tos, se non torno a salvarti devi nutrirti anche con il corpo di mia madre e con quello di mia sorella. È il tuo compito, Carlito, almeno tu devi sopravvivere”. Ecco che cosa mi disse». Quando siete tornati a Montevideo, vi accol- sero come degli eroi. Poi, quando rivelaste la vicenda più spinosa e delicata - quella di essere sopravvissuti cibandovi di carne umana - ci fu un momento di smarrimento nell’opinione pub- blica sia uruguayana che internazionale, sba- glio? «No, non sbagli. I giornalisti ci assillavano. Era terri- bile. Non puoi immaginare le domande insulse che ci fecero e la morbosità che alcuni di loro avevano. Una rivista brasiliana arrivò a scrivere: “Adesso pos- siamo perdonare i nostri calciatori che nel 1950 allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro, perdettero la fi- nale mondiale contro l’Uruguay, perché ora sap- piamo chi sono gli uruguayani: dei cannibali!”». MC R MARZO2018 MC 79 • Cile | Uruguay | Disastri aerei | Sopravvivenza | Amore alla vita | Scelte estreme •

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