Missioni Consolata - Maggio 2017

MAGGIO2017 MC 45 D «M aramao perché sei morto? Pan e vin non ti mancava. L’insalata era nel- l’orto e una casa avevi tu», cinguet- tava il trio Lescano nel 1939. Negli anni 2000 la stessa cantilena ha cominciato a riecheggiare tra alcuni contadini di Canelli (Asti) che la usavano per indicare, con atteggiamento beffardo, i braccianti migranti finiti nel giro del caporalato, sfruttati nelle campagne del Dolcetto e del Barolo. Oggi però Maramao ha un nuovo significato. Dal 2014 è il nome di una cooperativa agricola fondata da rifugiati politici e alcuni italiani. Maramao, sì. Per farsi beffa della beffa. «Io e il mio collega Afa siamo i vicepresidenti - spiega Mamadou Ndiaje , senegalese -. Noi due e una nostra amica italiana rappresentiamo il comi- tato direttivo. Abbiamo iniziato questo lavoro col- tivando le terre che alcuni anziani del paese hanno deciso di darci in comodato d’uso gratuito». Ma- madou è arrivato dal Senegal e Abdulwahab Afa dall’Eritrea circa 4 anni fa. Oggi sono due giovani imprenditori di 30 anni, con alle spalle un passato trascorso in uno Sprar gestito dalla cooperativa Crescere Insieme di Acqui Terme (Alessandria), dove hanno imparato a destreggiarsi tra vendem- mie, raccolta di nocciole e trasformazionie di po- modori. Imparato il mestiere, i due ragazzi, in- sieme a chi li aveva accolti, hanno unito le forze per la creazione di Maramao, start up di produ- zione e vendita di prodotti agricoli biologici. «O ltre a coltivare, abbiamo deciso di ac- cogliere in tirocinio lavorativo dei ra- gazzi che stanno nei centri di acco- glienza, per insegnare loro un lavoro», racconta Afa. Una scelta importante che ha portato i due imprenditori agricoli a estendere quello che hanno imparato sull’auto imprenditorialità ai ra- gazzi, in gran parte richiedenti asilo, che sono un passo dietro a loro nel cammino verso l’integra- zione lavorativa. «Quando parti dal tuo paese d’origine, pensi che una volta arrivato in Italia sia facile trovare lavoro - ricorda Mamadou -. Poi ti rendi conto che ci sono tanti limiti. Prima di tutto bisogna avere i docu- menti a posto e parlare la lingua. Senza lavoro qui non è facile». E così i due giovani vicepresidenti fanno quello che possono per rendere a chi è arri- vato dopo di loro più fluido il passaggio a una nuova vita lavorativa. Un tirocinio non è certo una sicurezza, ma rappresenta un primo passo per mi- gliorare le proprie competenze e per venire in con- tatto con la popolazione locale. Molti dei ragazzi in stage si occupano della vendita dei prodotti al mer- cato, dove hanno l’opportunità di parlare con i clienti ed essere apprezzati per il proprio lavoro. Una gratificazione che stimola i giovani richiedenti asilo a mettercela tutta per dare nuova dignità ai campi abbandonati per anni (molte sono infatti terre lasciate incolte). Almeno per un periodo. Al- meno fino a quando non avranno le idee più chiare sul loro futuro. «A volte i nostri tirocinanti non ot- tengono il permesso di soggiorno, oppure vogliono andare in Nord Europa - conclude Mamadou -. Non tutti loro rimarranno in Italia, ma noi proviamo a coinvolgerli nella coltivazione, nella raccolta, nella vendemmia e in tutto ciò che c’è da fare in una co- operativa agricola, perché ovunque vadano pos- sano portarsi un mestiere con loro». Sim.Car. L’INTEGRAZIONECHE SI COLTIVA Mamadou Ndiaje, Senegal e Abdulwahab Afa, Eritrea © Manuele di Siro © Manuele di Siro

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