Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2017

32 MC GENNAIO/FEBBRAIO2017 1. Un cambiamento di prospettiva C onclusa la storia del Giubileo (e dei Giubilei), vorrei riflettere per i lettori di Missioni Conso- lata su un argomento che mi è caro ed è cen- trale nella vita cristiana: la preghiera . Di essa non abbiamo una consapevolezza piena, ma subiamo le conseguenze di un’usanza che si tramanda per forza d’inerzia, senza entusiasmo. Relegata ad alcuni momenti (mattina e sera) e luoghi specifici (chiesa), la preghiera non innerva la vita perché è momento separato, chiuso in sé, quasi mai sinonimo di vita. Rito e vita, in questa visione, sono divisi e distanti. Pregare ha sempre significato adempiere un atto o dedicare un tempo, dire formule imparate a memo- ria, corrispondere a un dovere giuridico ( vedi l’ob- bligo del breviario per preti). Raramente è stato inse- gnato che pregare è vivere e respirare la vita. Di Francesco di Assisi, come vedremo meglio in se- guito, il suo biografo diceva che non era uno che pre- gava, ma era preghiera egli stesso . Com’è possibile? Come si può essere preghiera? Quale è la distanza tra la natura cristiana della preghiera e il nostro modo di pregare? Per rispondere a queste domande che in- terrogano la nostra esperienza di vita, è necessario partire la lontano con una parentesi un po’ lunga (questa 1 a puntata) sulla formazione catechistica e solo dopo potremo cominciare a riflettere, aprendoci a prospettive che, forse, non abbiamo mai preso in considerazione e che potrebbero aiutarci a verificare il nostro modo di essere oranti. Interrogheremo la Bibbia e la Tradizione giudaica. Catechisti per caso Chi scrive, e quasi certamente chi legge, proviene da una formazione catechistica deformante che ci ha educati più all’ateismo pratico che allo spirito del Vangelo. I catechisti della nostra infanzia, infatti, erano (in buona misura lo sono ancora oggi) brave persone di buona volontà, laici, più donne che uo- mini, mamme, a volte suore, raramente preti. Per- sone adorabili, impegnate in parrocchia, ma senza al- cuna formazione pedagogica, e tanto meno biblica e/o teologica. Che strano paradosso! Per insegnare materie scolastiche bisogna essere laureati, per tra- smettere la vita di Dio, basta improvvisare! Con una infarinatura superficiale, fatta dal parroco che forse ne sapeva meno di loro in fatto di Bibbia e di teolo- gia, essi davano ieri, e danno oggi, quello che a loro volta avevano ricevuto da altre brave persone, anch’esse carenti in formazione. La conoscenza su- perficiale della Scrittura era conseguenza di un ap- proccio «per sentito dire» e appresa e trasmessa come «storia sacra» (racconto), senza distinzione tra libri storici o profetici, poetici o sapienziali. Spiegando i Vangeli, per esempio, quasi sempre i racconti della vita di Gesù erano confusi con i quelli apocrifi e mira- colistici, creando enormi confusioni. Inevitabile che catechismo e omelia avessero un’impronta morali- stica: pretendevano d’insegnare «cosa fare», non di educare a «chi essere». Se si facesse un’indagine seria si scoprirebbe che chi ha frequentato il catechismo, probabilmente non ricorda le Beatitudini nella ver- sione di Matteo o di Luca, confonde Bibbia e Vangeli, ma facilmente rammenta «i capricci» di Gesù bam- bino che rompe le brocche per poi riaggiustarle o crea uccellini di creta, facendoli volare o, da vera peste, fa morire i compagni per il piacere di risuscitarli, dopo i rimbrotti di sua madre. La via facile D’altra parte il catechismo, almeno dal sec. XVI (Con- cilio di Trento) e ancora oggi, non è mai stato finaliz- zato alla crescita nella fede della persona e dell’ ekkle- sìa , ma solo alla «sacramentalizzazione», cioè alla pre- parazione della «Prima Comunione» o della «Cre- sima» o «del Matrimonio». Per quest’ultimo, poi, tutto si risolve in cinque o sei striminziti incontri per supplire il vuoto di una vita! La sofferenza e la morte sono altra cosa, perché fuori dell’orizzonte cristiano, cui si accede se non all’ultimo momento, quello della sepoltura, come fatto esclusivamente sociale. Finiti questi appuntamenti «occasionali», termina anche la fede perché i ragazzi non partecipavano più - né par- tecipano oggi - all’Eucaristia, che fino ad allora ave- vano vissuto come «obbligo» o peggio come «ri- catto»: se non vai al catechismo e se non «vai a Messa», niente gioco o premio o gita. Chi ha frequen- tato le scuole cattoliche ricorda ancora oggi, spero con orrore, «l’obbligo della Messa quasi quotidiana», e se ne è ritenuto dispensato per il resto della vita, una volta finita la tortura. Quando ero bambino, bisognava timbrare il cartellino e raccogliere punti, come in un moderno super- market. Come aggravante, il catechismo è stato strut- turato sul calendario e sul metodo della scuola: iden- tici tavoli, stessi quaderni, stesso astuccio di colori, identico registro delle presenze, stessi tempi e stesse vacanze. Fino agli anni ’70 del secolo scorso, il testo del catechismo in uso, «da imparare a memoria», era Insegnaci a pregare COSÌ STA SCRITTO di Paolo Farinella, prete

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