Missioni Consolata - Giugno 2013

Voce nel deserto di Nicholas Muthoka e Francesca Allasia Tutto inizia da una domanda «S ei felice?», è una do- manda che ci si pone. Consciamente o incon- sciamente. La prima volta che qualcuno me l’ha fatta in modo diretto ho esitato: «In che senso felice?». Non l’allegria o il diver- timento fugace, ma la gioia piena. Quella che deriva dal sentirsi bene nella propria vita con la consapevolezza di quale sia la propria vocazione... ecco la parola: vocazione. Oggi si ha quasi paura di pronunciarla. «È roba da bigotti! Non voglio mica farmi suora, o prete!». Chiaria- molo subito: la vocazione è per tutti. Non è solo quella alla vita consacrata. È la ricerca del pro- prio posto nel mondo, di quello che si può fare e si vuol essere, è fare della propria vita un pro- getto e impegnarsi per realiz- zarlo. È scoprire che il nostro progetto coinvolge anche gli al- tri che diventano non solo amici ma compagni di cammino. Tutto inizia con una domanda sulla nostra vita. Con un’inquie- tudine che non ci spieghiamo e che ci spinge a cercare finché non troviamo ciò che per noi è «casa», ciò che ci cambia trasfor- mando la nostra inquietudine in pienezza. La vocazione è una questione di amore. È sentirsi così infinitamente e tenera- mente amati da voler donare tutto. E allora le domande svani- scono e ci si scopre già nel coin- volgimento del «sì». Vocazione è venire chiamati e lasciarci len- tamente possedere e abitare da quel Signore che quando entra non esce più. Incontriamo le persone giuste al momento giu- sto che attirano, sfidano, e gui- dano e, fra esitazioni, resistenze, tentennamenti lo scatto comun- que accade e finalmente ci ac- corgiamo di non poter scegliere altro, di essere come «posse- duti», di essere abitati da Lui in un modo misterioso! Uno allora si appassiona della missione, della vita in comune, degli altri. Comincia a sognare, a vivere intensamente. È l’espe- rienza dell’ultima cena, mo- mento fondante del sacerdozio ministeriale e di ogni consacra- zione, quella in cui Gesù dona il suo corpo e il suo sangue ai suoi discepoli. Nel momento in cui dice: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue», Gesù fa la stessa identica esperienza, ma al contrario. Egli sente forte- mente che non appartiene a se stesso. E non solo il suo spirito, i suoi insegnamenti, la sua mis- sione, ma anche il suo stesso corpo non è più suo. O meglio, diventa più suo quando diventa dei suoi discepoli. Gesù sente in sé che ormai appartiene a loro. «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Questo sono io!». Lui vivrà in loro per sempre e loro apparteranno a lui, anche fisicamente. È per questo che l’eucarestia è sorgente di voca- zioni: perché è lì, nel cenacolo, che il Signore condivide con quelli che ha scelto l’esperienza di appartenenza. La promessa vocazionale è grande. Si ha la consapevolezza che le sorprese del Signore non mancheranno e che la vita, la missione, può portare lontano. È così che il Signore riempie la solitudine del chiamato, la quale diventa una beata solitudine. È per questo che chi viene chia- mato comincia a cercare i propri spazi di preghiera. La vita frene- tica di prima non gli va più e non lo riempie. Il chiamato è gene- roso, attivo e creativo, ma la do- nazione agli altri non è cercata per se stesso, e non è il fattore che riempie i suoi giorni. A riem- pire la vita è quella beatitudine, quella pace interiore che tra- bocca dal silenzio della pre- ghiera e dell’ascolto della Pa- rola. Nicholas Muthoka e Francesca Alassia © Af MC 80 amico GIUGNO 2013

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