Missioni Consolata - Febbraio 2009

MC FEBBRAIO 2009 67 videnza, la cooperazione internazionale. La paura accomuna chi è già povero e chi rischia di diventarlo, chi vive nelle periferie dell’emisfero Sud e chi abita nelle metropoli del Nord. Per molti la «povertà da crisi» è già realtà quotidiana: la Fao (organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione, ndr ) calcola che il numero degli affa- mati crescerà di 40 milioni nel corso del 2009, la Banca mondiale dichiara che sono 100 milioni i «nuovi» pove- ri. Cento milioni che si aggiungono al miliardo e 200 milioni già censiti. Nell’Assemblea per valutare i progressi compiuti verso gli otto «obiettivi del millennio», che si è svolta al palaz- zo di vetro nel settembre 2008, il segretario generale del- l’Onu ha chiesto 30 miliardi di dollari per raggiungere il primo goal che punta al dimezzamento, entro il 2015, del- le persone che vivono in povertà, ma queste risorse non si sono trovate. Sono stati racimolati 16 miliardi di dolla- ri, una somma insufficiente per aiutare i paesi che sono ancora lontani dal traguardo e che anzi regrediranno pro- prio a causa della crisi. Si è capito che le risorse per combattere la povertà si ridurranno ancora di più, perché per molti mesi, forse anni, la priorità verrà data al salvataggio delle economie ricche . A nche la recente conferenza di Doha su «Finanza per lo sviluppo» si è conclusa con un ben magro risultato: ha ribadito, con scarsa convinzione, alcu- ni degli impegni presi a Monterrey nel 2002 nel campo dell’aiuto allo sviluppo, degli investimenti e del reperi- mento di risorse locali, ma non ha avuto il coraggio di affrontare i veri nodi di una finanza di rapina: fuga di capitali, paradisi fiscali, corruzione, mancanza di traspa- renza e tracciabilità. Eppure sono queste le vere cause dell’impoverimento dei popoli del Sud: ogni anno 500 miliardi di dollari scap- pano dai paesi in via di sviluppo verso i paradisi fiscali o le grandi banche del Nord: 10 volte quanto viene desti- nato alla cooperazione allo sviluppo. La conferenza non ha preso decisioni di rilievo, le cose davvero importanti sono state rimandate al G8 o al G20, luoghi dove i poveri non hanno rappresentanza e dove si vuole solo rattoppare un sistema che ha mostrato tutti i suoi errori e le sue malefatte. La globalizzazione governata da pochi paesi e domina- ta da pochi gruppi economici ha prodotto una crescita che il «Rapporto sullo sviluppo umano» dell’Undp (Pro- gramma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndr ) defini- sce crudele: una crescita senza occupazione, senza pari opportunità, che indebolisce i diritti umani e distrugge la natura. Una classe politica miope, in particolare nel nostro pae- se, sembra incapace di vedere vie d’uscita che non siano la ripetizione degli stessi errori degli ultimi venti anni. Eppure la crisi potrebbe rappresentare una straordina- ria opportunità se aprisse le porte a un nuovo modello di sviluppo. Un modello le cui caratteristiche sono già delineate negli studi e nelle pratiche delle organizzazioni dei citta- dini che si sono attivate per rispondere ai problemi che la globalizzazione ha loro creato. Un modello che le Nazioni Unite hanno chiamato il Green new deal . Rilanciare lo sviluppo a partire dall’ambiente, incentiva- re l’uso delle energie rinnovabili, favorire la green occu- pation, premiare le imprese socialmente ed ambiental- mente responsabili, ridurre gli sprechi in tutta la catena della produzione, distribuzione e consumo. Potenziare il capitale umano e sociale, investendo in istruzione e salute: i veri motori di sviluppo. R imettere l’occupazione dignitosa (il decent work secondo la definizione dell’Organizzazione interna- zionale del lavoro) al centro delle attività produtti- ve, penalizzare le ristrutturazioni aziendali che compor- tano licenziamenti di massa. Attuare tutti gli interventi fiscali, economici e finanzia- ri che portano alla ridistribuzione delle risorse. Non è vero che bisogna puntare sulla crescita , che poi «sgoc- ciola» fino ai poveri, come sostengono i liberisti: studi della New economic foundation dimostrano che per 100 dollari di crescita solo 60 centesimi arrivano ai poveri. Intervenire con decisione sugli aspetti più rischiosi dei mercati finanziari: dai paradisi fiscali alle speculazioni sulle valute, dagli edge funds al segreto bancario. Mettere fine all’economia di guerra. Gli investimenti nel settore degli armamenti e le spese per la difesa sono aumentati paurosamente a partire dalla guerra in Afgha- nistan: tutti gli impegni per lo sviluppo, tutti i processi di pace vengono annientati dal commercio mondiale delle armi sempre più fiorente. Ridare riconoscimento e vigore alle sedi multilaterali di negoziato, secondo il principio della più ampia rappre- sentatività. Eleggere a modello economico, ma anche culturale, i comportamenti virtuosi dell’economia civile e della finanza etica, basati sull’idea di mutualità, condivisione e giustizia sociale. Un’agenda di cambiamento reale, che non ci rimanda al tempo dell’utopia, ma alle scelte possibili di oggi. Sabina Siniscalchi, sposata con 4 figli. Laureata in Scienze politiche, ha lavorato a Mani Tese dal ‘78 al 2002, gli ultimi 10 anni come segretario nazionale. Dal 2003 al 2006 è stata direttrice della Fondazione Culturale di Banca Etica, di cui è oggi responsabile del- le relazioni internazionali. Dal 2006 al 2008 è stata de- putata indipendente nel gruppo Rifondazione Comunista. Ha pubblicato vari saggi e articoli sulle pro- blematiche dello sviluppo e svolto relazioni in convegni. C’è un altro modo di pensare, e agire

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