Missioni Consolata - Dicembre 2023

Poste Italiane S.p.A. - Spediz. in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO

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3 EDITORIALE ai lettori M C DICEMBRE 2023 | MC | Tempi di angoscia e confusione Caro Gesù Bambino, come ogni dicembre torno a scriverti nel ricordo della tua venuta, festa di luce e di pace. Quest’anno però sono più confuso che mai, vista la situazione di crisi internazionale che tutti stiamo vivendo. Pensa che, probabilmente, a Betlemme quest’anno non potranno celebrare in sicurezza e libertà la memoria della tua nascita. È proprio la terribile guerra che è riesplosa nella terra dove tu sei nato che aumenta il mio disagio e la mia confusione. La Palestina non trova pace, oggi come ieri: devastata nei secoli da violenze e stragi da cui anche tu sei stato colpito, quando sei dovuto fuggire con la tua famiglia dalla spietatezza degli sgherri di Erode venuti nel tuo villaggio a uccidere senza pietà tutti i bambini per essere certi di colpire te. La guerra di oggi mostra la stessa spietatezza: non passa giorno che non ci siano notizie di massacri di bambini, addirittura neonati, senza contare quelli di anziani, donne e persone indifese. Non passa giorno senza la distruzione di case, scuole, ospedali e luoghi di culto. Neanche la guerra in Ucraina, con le sue folli violenze, ci ha abituati a una violenza sui civili tanto indiscriminata e su vasta scala. Ma quello che fa male è soprattutto il fatto che, invece di spingerci a reagire rinnovando il nostro impegno per la pace e la vita, questa ennesima guerra (ennesima, perché sono almeno 59 quelle in atto nel mondo, con violenze inenarrabili sui civili, nell’indifferenza generale) sta tirando fuori il peggio di noi stessi, facendoci schierare - spesso con intolleranza - per una parte o per l’altra. La logica della violenza ci travolge, modella i nostri comportamenti, ci convince che solo con la distruzione dell’altro, il nemico, la pace sia possibile. E tornano in campo stereotipi che pensavamo superati, il razzismo riprende quota, la caccia al nemico diventa un dovere, l’antisemitismo riemerge. E tutti diventano nemici senza volto per i quali non c’è compassione, ma solo rabbia, rancore, odio o totale indifferenza. Ma non è con «mors tua vita mea» (la tua morte è la mia vita) che si ritrova la pace. In questa logica, non vediamo più le persone vere e concrete, ma un’indistinta massa di nemici da colpire. Proprio tutto il contrario di quanto tu hai provato a insegnarci con la tua vita, e papa Francesco ci ripete oggi senza stancarsi: la guerra è una follia che non risolve i problemi, non migliora la vita, non crea giustizia, non porta alla pace. L’unica risposta vera che costruisce la pace è l’amore, il perdono, al misericordia. «Porgi l’altra guancia», ci hai detto. «Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano». Rompere, rovesciare la logica della violenza, come hai fatto tu sulla croce, è l’unica via. Grazie di averci donato una persona come papa Francesco che, come il profeta anonimo di cui parliamo questo mese (vedi pag. 32), continua a ricordarci quello che davvero conta per la vita, per la pace, per l’ambiente: guardare a te che ti sei fatto vicino, che cammini con noi, che non ci molli mai, che sei la luce che scaccia confusione, tenebra, indifferenza, assuefazione e scoraggiamento, che sei parola di verità che decodifica fake news, luoghi comuni e slogan urlati senza contraddittorio. Grazie anche per tutti coloro che, pur non facendo notizia, siano essi israeliani o arabi, ebrei, musulmani o cristiani, continuano a operare nel silenzio per la pace, pagando di persona per essere vicini a chi soffre, e contestano la logica della guerra con azioni concrete di riconciliazione, di vicinanza alle vittime, di soccorso a chi ha perso tutto. Grazie per chi, in Palestina o in altre parti del mondo, continua a credere con te che la luce vince le tenebre, l’amore è più forte dell’odio, e che la pace si costruisce col perdono, il dialogo, il rispetto di tutti, specialmente dei più piccoli e dei più poveri. È urgente imparare da te la misericordia, quella forza originariamente femminile e materna con la quale ti sei immedesimato, che cambia il nostro modo di relazionarci gli uni agli altri e ci fa vedere, pensare e agire in modo nuovo. Che la luce della tua nascita possa essere per tutti più luminosa dei bagliori dei bombardamenti, del fuoco degli incendi, dell’oscurita dell’odio. Cacci ansia, confusione, indifferenza e riaccenda in ciascuno di noi la voglia di operare per la pace. Che la tua luce ci dia la capacità di guardarci in faccia senza paura e scoprirci fratelli e sorelle. di GIGI ANATALONI direttore responsabile

Il numero è stato chiuso in redazione il 13 novembre 2023 e consegnato alle poste di Torino prima del 30 novembre. * * * 06 CHIESA NEL MONDO a cura di Sergio Frassetto 32 CAMMINATORI DI SPERANZA /10 Il profeta senza nome di Angelo Fracchia 57 E LA CHIAMANO ECONOMIA Sostituzione etnica o necessità? di Francesco Gesualdi 60 NOSTRA MADRE TERRA Dai gabbiani ai maiali di Rosanna Novara Topino 64 COOPERANDO Biogas, istruzione e salute: il 2023 di Mco di Chiara Giovetti 80 INDICE ANNATA Indice MC 2023 a cura di Gigi Anataloni In copertina: Ciaffe Baalla, Shambo, Etiopia. Bimba porta una cesta con un grosso pane per la festa della Consolata nella cappella a lei dedicata (foto Domenico Brusa). https://www.rivistamissioniconsolata.it Gli articoli pubblicati sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente l’opinione dell’editore. - I dati personali forniti dagli abbonati sono usati solo per le finalità della rivista. Il responsabile del loro trattamento è l’amministratore, cui gli interessati possono rivolgersi per richiederne la verifica o la cancellazione (D. LGS. 196/2003). 12 | Dicembre 2023 | anno 125 03 AI LETTORI Tempi di angoscia e confusione di Gigi Anataloni 05 NOI E VOI Lettori e Missionari in dialogo COMUNITÀ DI FAMIGLIE TRE ESPERIENZE TRA LOMBARDIA, VENETO E PIEMONTE di Daniele Biella, Mario Aversano e Luca Lorusso 08 MOZAMBICO Curare ferite invisibili di Giulia Moro e Paolo Ghisu 13 ETIOPIA Le braci restano accese di Enrico Casale 18 BIELORUSSIA Passaggio a Est di Ezio Cheinasso 22 NIGER Uno strano golpe di Marco Bello 27 ITALIA Accogliere non è peccato di Silvia Zaccaria 51 GUATEMALA L’attesa infinita di Simona Carnino 68 ITALIA-MONGOLIA Da Oriente a Occidente di Piero Demaria 70 AMICO Il volto svelato inserto a cura di Luca Lorusso SOMMARIO * * * * 27 35 ossier | MC | DICEMBRE 2023 4 * * * 18

LA FRECCIA DELLA PACE Anche a Dar es Salaam (Tanzania), dove opero, i ragazzi vanno a scuola zaino in spalla. Persino i bambini dell’asilo indossano lo zainetto, decorato con paperette e caprette. Pochi bimbi, però, perché la scuola materna è un lusso da queste parti. A questi zaini e zainetti ho pensato, cari missionari della Consolata, visitando il vostro «Polo culturale» Cam, Cultures and Mission, di Via Cialdini 4, Torino. Già. Iniziando la visita, sono stato «accolto» proprio da uno zaino e da un paio di sandali. Corredo essenziale per chi affronta un viaggio a piedi. Un viaggio, quello nel Cam, attraverso reperti culturali di valore assoluto, esperienze di missionari e missionarie, danze e musiche coinvolgenti, che mi hanno avvicinato ai Kikuyu del Kenya, ai Wahehe del Tanzania, ai Pigmei del Congo, agli Amara dell’Etiopia. Senza scordare gli Yanomami del Brasile e altre popolazioni dell’America Latina. Realtà affascinanti, documentate da foto dell’«archivio Missioni Consolata». E l’Asia? L’Asia non manca nel «Polo culturale». Così ho attraversato le steppe gelide e sterminate della Mongolia... Anno 1241, Cracovia (Polonia). Dal campanile della chiesa di Santa Maria un trombettiere lancia l’allarme: «I Mongoli sono alle porte!». Ma un arciere mongolo 5 a cura di Gigi Anataloni LETTORI E MISSIONARI IN DIALOGO NOI E VOI colpisce a morte quel trombettiere polacco. Ancora oggi, a Cracovia, ogni ora un trombettiere suona quell’allarme del 1241. E dalla Mongolia il 10 giugno 2018 Paola Giacomini è partita a cavallo con nello zaino una freccia simile a quella dell’arciere mongolo che trafisse il trombettiere polacco. Paola ha cavalcato per 15 mesi, fino al 16 settembre 2019, allorché entrò nella basilica di Santa Maria, a Cracovia, per deporre la freccia della ... pace. Grazie Mongolia, grazie Polonia. Grazie Paola, ambasciatrice di pace. Francesco Bernardi, Dar es Salaam, 13/10/2023 IN MEMORIA DI PADRE PAOLO TABLINO Don Paolo Tablino, prete della diocesi di Alba, è stato missionario fidei donum e poi missionario della Consolata a Marsabit, nord del Kenya, dalla fine degli anni Cinquanta al 2009. Per ricordare la sua opera e il suo impegno pastorale che negli anni ha favorito l’istruzione, l’accesso alla sanità, l’inculturazione del Vangelo nella valorizzazione della cultura locale, lo scorso 28 ottobre è stato inaugurato ad Alba un monumento, opera del giovane artista albese Samuel Di Blasi. L’installazione dal titolo «Marsabit», opera d’arte alta più di quattro metri che rappresenta un albero, è stata posta nell’area verde che l’amministrazione comunale aveva già dedicato al missionario, in prossimità della chiesa Cristo Re, tra via Romita e via san Teobaldo. DICEMBRE 2023 | MC | Carissime lettrici, carissimi lettori, per darvi un’informazione sempre più puntuale, approfondita e aggiornata, sul nostro sito www.rivistamissioniconsolata.it abbiamo attivato «MC notizie». È uno spazio che vede la pubblicazione di diversi, nuovi articoli ogni settimana. Un impegno, questo, per portare in modo ancora più aggiornato i temi cari a MC nelle vostre case, sui vostri cellulari e computer. Perché anche una pubblicazione che ha 125 anni di esistenza deve e può essere al passo con i tempi. Vi aspettiamo anche sul web, ogni settimana. UNA PREGHIERA E UN AUGURIO PER QUESTO NATALE che nel cielo di ogni angolo del mondo ci siano solo luci di gioia! AGGIORNATI CON MC NOTIZIE SUL WEB

KAZAKISTAN CONGRESSO DELLE RELIGIONI Si è tenuto ad Astana l’XI Congresso dei leader delle religioni mondiali tradizionali, alla cui precedente sessione di settembre 2022 aveva partecipato anche papa Francesco, e che ha radunato rappresentanti da ventitrè Paesi. Al palazzo della Pace, al centro della capitale kazaca, si sono seduti intorno a un tavolo esponenti dell’islam, delle diverse confessioni cristiane, dell’ebraismo, buddismo, induismo, taoismo, scintoismo e altre religioni, insieme a membri di diverse organizzazioni internazionali, approvando infine una dichiarazione comune. Negli interventi, molti hanno osservato come il vero pericolo attuale sia il cosiddetto «scontro delle civiltà», che coinvolge anche le religioni nei conflitti armati, e in quelli informativi. Per questo i fondamenti della società contemporanea devono essere dei valori morali e religiosi veramente solidi e non artificiosi, che educhino a una nuova cultura della tolleranza che tenga conto delle sensibilità sempre più accentuate delle nuove generazioni. Tra le altre iniziative, il Congresso si propone di creare l’istituto degli «ambasciatori della buona volontà» e di organizzare forum per i leader religiosi più giovani. (Asia News) INDONESIA QUALE NOME DI GESÙ? Il governo indonesiano non utilizzerà più, in lingua bahasa, la lingua nazionale, il termine «Isa AlMasih», parola di provenienza araba, per riferirsi a Gesù Cristo. Si pone fine così alla pratica di utilizzare il termine usato dai credenti di religione islamica che attingono dalla terminologia in arabo del Corano. A partire dal 2024, le istituzioni pubbliche utilizzeranno il termine «Yesus Kristus», formula che i battezzati indonesiani di tutte le confessioni, usano nelle loro preghiere e liturgie. Fino a oggi il Venerdì Santo era definito nei documenti ufficiali statali «Wafatnya Isa Al-Masih», mentre l’Ascensione di Cristo era «Kenaikan Isa Al-Masih». Vi sarà un cambiamento nella nomenclatura anche per quanto riguarda i nomi delle festività, come proposto dal ministro per gli Affari religiosi. Il provvedimento ha generato nell’opinione pubblica reazioni e opinioni contrastanti: secondo alcuni cristiani è la decisione giusta perché, nelle liturgie cristiane non si usa mai la parola «Isa Al-Masih», ma si usa «Yesus Kristus». Secondo altri, il cambiamento non era necessario perché «la gente sa già che dicendo Isa Al-Masih ci si riferisce a Gesù Cristo, e il nome è intercambiabile». (Fides) BARHAIN GIUBILEO «Consideriamo questo un anno di grazia per l’intero vicariato e per tutte le comunità cristiane presenti nel Golfo Persico. Celebriamo nella fede la memoria dei nostri antenati cristiani che hanno dato la vita per Cristo, rimanendo fedeli fino alla fine». Lo riferisce il vescovo Aldo Berardi, vicario apostolico dell’Arabia del Nord, annunciando l’inizio del Giubileo per il 1500° anniversario dei Martiri d’Arabia (523-2023). Un tempo di memoria dei martiri che verrà vissuto congiuntamente dal Vicariato apostolico dell’Arabia del Nord (che comprende Barhain, Qatar, Kuwait e Arabia Saudita) e dal Vicariato apostolico dell’Arabia del Sud (che comprende Emirati Arabi Uniti, Yemen e Oman), guidato dal vescovo Paolo Martinelli. Il 24 ottobre 2023 la Chiesa cattolica nella penisola arabica ha celebrato la festa liturgica del martirio di Sant’Areta e dei suoi compagni con l’apertura del giubileo in tutte le parrocchie. Nella sua testimonianza il vescovo Berardi, sottolinea che il giubileo fornirà l’occasione propizia per riscoprire la memoria degli antichi martiri, e trovare conforto nelle loro storie di fede e prossimità martiriale a Cristo. (Fides) OCEANIA/POLINESIA ARTIGIANI DI PACE Oltre ottanta partecipanti impegnati nella vita cristiana nell’arcipelago delle Raromatai, le isole Sottovento, si sono riuniti sull’isola centrale, Raiatea, da domenica 17 a mercoledì 21 settembre, per un incontro di preghiera, che nell’arcipelago si chiama Putuputura’a, dal tema: «Beati gli artigiani di pace». Si è trattato della IV edizione sempre ispirata al Sinodo con l’obiettivo di riorganizzare attia cura di SERGIO FRASSETTO LA CHIESA NEL MONDO | MC | DICEMBRE 2023 6 Kazakistan: i rappresentanti delle religioni di tutto il mondo riuniti in congresso nel Palazzo della pace di Astana. © Foto: profilo X Unaoc

vità e partecipazione attiva dei giovani. Il tema di quest’anno ha voluto sottolineare l’aspetto dell’essere «artigiani» e quindi costruttori di pace e non semplicemente maglie di una catena di produzione ripetitiva e limitante. Grande emozione ha suscitato anche l’arrivo sull’isola di una reliquia di San Francesco inviata da un’anziana monaca Clarissa di un monastero vicino Napoli. Mentre la preghiera «Signore fai di me uno strumento della tua pace» veniva scandita versetto per versetto, la reliquia passava di mano in mano tra gli oltre ottanta partecipanti. La reliquia è stata affidata all’isola che ha ospitato il Putuputura’a e raggiungerà l’isola di Huahine a febbraio 2024 dove sarà organizzato il prossimo Putuputura’a. Così ogni sei mesi San Francesco viaggerà da un’isola all’altra per garantire e sostenere i costruttori di pace e per cucire lui stesso la pace. (Fides) INDIA CATECHISTI Il loro mezzo di trasporto preferito è spesso la bicicletta. A volte, quando è possibile, e quando le distanze sono troppo ampie, si spostano in motocicletta, se la parrocchia ne ha una a disposizione. Si tratta dei catechisti che, in tutte le diocesi della Chiesa indiana, svolgono un ruolo importante: sono loro a visitare con regolarità i fedeli nei villaggi e mostrare l’attenzione e la cura pastorale della Chiesa a gruppi di famiglie cattoliche, a volte anche un numero molto esiguo, sparsi in zone remote, laddove i sacerdoti riescono solo raramente ad arrivare. Accade, ad esempio, nella diocesi di Rayagada, nello stato di Odisha (un tempo noto anche come Orissa), dove vi sono 50mila cattolici su una popolazione totale di circa 5,5 milioni di persone. I fedeli cattolici provengono dagli strati più poveri ed esclusi della società, molti vivono grazie all’agricoltura di sussistenza e non hanno istruzione. I circa trenta catechisti della diocesi seguono e accompagnano nel cammino di fede queste famiglie tribali, anche compiendo viaggi con distanze considerevoli. Questo scenario è comune a numerose altre realtà locali, dove il ministero del catechista risulta prezioso per le parrocchie. (Fides) VIETNAM EVANGELII GAUDIUM «L’Evangelii Gaudium è un documento fondamentale per la Chiesa universale e lo è anche per la Chiesa in Vietnam. Dalla sua lettura e studio è scaturita una bella esperienza missionaria per la nostra Chiesa locale di Ho Chi Minh Ville: abbiamo avviato la presenza di piccole “stazioni missionarie” sparse nel territorio, nei luoghi e quartieri periferici o più abbandonati, per far sentire la nostra vicinanza alla gente, soprattutto ai più poveri»: è quanto racconta mons. Joseph Bui Cong Trac, vescovo ausiliare di Ho Chi Minh Ville. «Nelle stazioni missionarie vi sono preti, religiosi, suore e laici che testimoniano l’amore di Cristo, parlano con la gente, pregano, ascoltano i loro bisogni, vi rispondono con opere di carità, e la gente, soprattutto i poveri, comprende che, in quei gesti gratuiti c’è il messaggio di amore di Gesù». (Fides) Vaticano: Suor Simona Èuna nomina dal sapore missionario quella di suor Simona Brambilla, neo segretaria del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Missionaria della Consolata, in cui ha ricoperto il ruolo di superiora generale, suor Simona Brambilla è stata chiamata da papa Francesco a questo incarico. Entrata tra le missionarie della Consolata nel 1991 con un diploma di infermiera alle spalle, nel 1998 suor Brambilla ha conseguito la licenza in psicologia presso la Pontificia università gregoriana e, l’anno successivo è partita missionaria in Mozambico. Qui ha lavorato nella pastorale giovanile e nel Centro studi Macua Scirima di Maúa, nel Niassa, diretto da padre Giuseppe Frizzi missionario della Consolata mancato nel 2021, e con il quale ha avuto la «grazia» di collaborare come lei stessa racconta. In quel contesto si è occupata di inculturazione e dialogo con la spiritualità e con la sapienza originaria del popolo Macua. «L’esperienza personale di vita con la gente scirima di Maúa e dintorni è stata per me un’occasione preziosa di approfondimento del senso della missione e della missione come Missionaria della Consolata - scrive suor Brambilla in un documento testimonianza intitolato “La sapienza della foresta” trasmesso all’Agenzia Fides -. Felicemente contaminata dalla prospettiva macua, mi sono ritrovata a gustare e valorizzare in modo inedito la dimensione femminile e materna intrinseca al nostro carisma. Il riconoscimento, il rispetto, l’accoglienza e la cura premurosa di ogni germe di vita presente nelle persone, nei popoli e nella storia mi sono apparse più che mai come caratteristiche essenziali e specifiche della missionarietà consolatina». Suor Simona Brambilla è stata inoltre docente presso l’Istituto di psicologia della Pontificia università gregoriana dal 2002 al 2006 e nel 2008 ha conseguito il dottorato in psicologia presso la stessa facoltà. (Fides) DICEMBRE 2023 | MC | 7 Vaticano: Suor Simona Brambilla, neo segretaria del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. © Foto Mc

«Possiamo ballare, possiamo cantare, ma non possiamo dormire, perché restiamo sempre con un occhio aperto», intonano le donne a Incularino, distretto di Palma, teatro dell’attacco di marzo 2021, uno dei più sanguinosi del conflitto scoppiato nel 2017 a Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Una guerra che vede coinvolti gruppi armati nazionali e internazionali, tra cui quello islamista, noto come Al-Shabaab, e le forze di sicurezza mozambicane, e che si è intensificata nel tempo causando gravi Gli scontri nel nord del Mozambico, iniziati nel 2017, hanno causato una fuga di massa della popolazione. Oggi la situazione si è un po’ stabilizzata e la gente ha ripreso a tornare a casa. Ma i traumi rimangono a lungo e i servizi di recupero psicologico sono pochi. Alcuni testimoni raccontano la loro esperienza. sofferenze umane e movimenti di popolazione di massa. Si stimano un milione di sfollati su circa due milioni di abitanti della provincia. Gli scontri sono alimentati da un intreccio di motivazioni politiche, sia interne che esterne, religiose ed economiche. I gruppi | MC | DICEMBRE 2023 8 di GIULIA MORO E PAOLO GHISU, FOTO DI P. GHISU MOZAMBICO IL RECUPERO PSICOFISICO DEGLI SFOLLATI DI CABO DELGADO Curare ferite invisibili

armati jihadisti cercano di stabilire il loro controllo in una regione ricca di risorse naturali, tra cui gas, carbone e rubini. La situazione ha attirato l’attenzione internazionale, con l’invio di una forza multinazionale della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc, organizzazione economica regionale, ndr) a partire dal luglio del 2021. La Sadc mission in Mozambico (Samim) ha il compito di sostenere il governo nel ripristino dell’ordine e della stabilità. Dopo la veloce riconquista di alcune città e territori che erano sotto il controllo dei ribelli (gruppi composti da mozambicani radicalizzati e da islamisti di altri paesi africani, vedi MC aprile 2022), il conflitto continua tra imboscate lungo le strade, incendi nei villaggi e attacchi mirati. Crisi umanitaria Le continue violenze hanno innescato una crisi umanitaria che si protrae oramai da sei anni. Oltre ai danni fisici e materiali, il conflitto ha avuto un profondo impatto sulla stabilità delle comunità, sugli equilibri naturali che prima favorivano una condivisione delle risorse. A tutto ciò si sommano gli effetti del cambiamento climatico sulla regione: alcune aree sofforno tempi di siccità prolungata, altre sono soggette a cicloni tropicali, le coste a erosione. La popolazione, dunque, affronta una doppia sfida: il conflitto armato che minaccia la sicurezza, e il cambiamento climatico che colpisce le risorse vitali come l’agricoltura e la pesca. Questi fattori, insieme all’impatto del movimento di popolazione (secondo dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni a fine 2022 erano stati registrati 1.028.743 sfollati, di cui il 90% nella provincia di Cabo Delgado), hanno indebolito l’accesso al cibo, ridotto le risorse economiche e aumentato la tensione tra le comunità. L’incertezza costante, la sensazione di perdita e la sfiducia nelle istituzioni rendono difficile per le persone cercare aiuto e affrontare il proprio dolore. «Non so dove sia mio fratello, so solo che non abbiamo ancora potuto fargli il funerale», racconta una ragazzina sfollata a Mueda. Durante gli attacchi sulla costa sono scappati insieme con la madre verso l’interno e, durante il viaggio, a causa della confusione e dello shock, hanno perso di vista il fratello maggiore. Pensano sia stato rapito da uno dei gruppi armati. La vita ricomincia Dopo l’intervento della forza internazionale, la vita è lentamente ricominciata: le scuole hanno riaperto, gli ospedali provinciali hanno il personale minimo sufficiente, le banche sono di nuovo attive. L’attenzione si sposta su questioni di sicurezza, sulla ripresa economica, sulle elezioni politiche, ma ogni individuo deve fare i conti con i propri traumi interiori. «Ci chiamano “retornados” perché siamo tornati nel luogo da cui venivamo, ma le cose sono cambiate», racconta Maria (nome di fantasia) di Palma, mamma di tre bambini, rientrata nella sua città dopo un anno di sfollamento vissuto nelle tende dei campi di risposta umanitaria. «Da un lato avevo parte della mia famiglia con me, inoltre quelle erano le nostre zone di origine, quindi tornare è stato facile, ma “ Le continue violenze hanno innescato una crisi umanitaria che si protrae da sei anni. DICEMBRE 2023 | MC | 9 In queste pagine: fotoreportage realizzato in due campi di sfollati nel distretto di Mueda, realizzato nel dicembre 2022. | Qui: bambini di fronte alla loro casetta. | A sinistra: una donna al lavoro nell’orto nei pressi del campo. conflitto | trauma | sfollati | recupero psicosociale

dall’altro viviamo in case vuote, senza cibo». Molte persone hanno problemi a fare riconoscere la propria identità legale, soprattutto nelle località di rientro degli sfollati. Infatti, durante la fuga, molti hanno smarrito i loro documenti e non riescono a rinnovarli, perché spesso i servizi di anagrafe nelle località di ritorno non sono ancora pienamente operativi. Questo può comportare diversi rischi: tratta di persone, difficoltà di accesso a servizi legali, essere soggetti a multe e detenzioni da parte della polizia. Nonostante alcune zone siano nuovamente sotto controllo governativo, gli spostamenti sono ancora difficili e pericolosi. «Non c’erano mezzi di trasporto e vivevamo in una zona isolata a ore di cammino da acqua e campi coltivabili», prosegue Maria. I pochi collegamenti, condizioni accidentate delle strade e pericolo degli assalti rendono ancora più precaria la fruizione di alcuni servizi pubblici. «L’ospedale funziona, ma sappiamo di persone che sono morte per poterci arrivare perché non ci sono trasporti... quindi preferiamo non andarci», raccontano alcune donne di Mueda. «La cosa più difficile è stata la mancanza di cibo durante lo sfollamento, ma anche, talvolta, non potersi muovere», racconta Aisha (nome di fantasia), 35 anni, di Palma. E non solo fisicamente: la vita è rimasta «immobile» per mesi, per alcuni anche per anni. In un ambiente di conflitto, dove il pericolo sembra essere onnipresente, le ferite che non si vedono sono difficili da curare e il ciclo del trauma si autoalimenta. Il risultato è una condizione soggettiva di iper vigilanza, nella 10 MOZAMBICO In alto a destra: campo di sfollati da Palma, équipe di supporto psicologico dell’Ong Helpcode. | Qui a fianco: veduta d’insieme del campo di sfollati. Qui sopra: una ragazzina sfollata lavora al mortaio. | MC | DICEMBRE 2023 “ La resilienza delle comunità locali può essere rafforzata con programmi di sostegno psicosociale.

quale ogni momento di tensione, ogni rumore improvviso, un locale buio, può risvegliare il truma rendendo difficile la vita quotidiana e tendendo a bloccare la persona. Servizi sanitari A Cabo Delgado, la mancanza di accesso ai servizi sanitari, compresi quelli psicologici, ha ostacolato il processo di recupero psicosociale della popolazione. La perdita di reti di supporto a causa della distruzione delle comunità e degli spostamenti ha lasciato molte persone isolate e prive di un sostegno emotivo adeguato. Il recupero dal trauma in un contesto di conflitto è un processo complesso e sfidante: ci sono molteplici approcci che possono aiutare gli individui a superare la situazione e riprendersi. I servizi di salute mentale, inclusi la terapia individuale e di gruppo, possono fornire uno spazio sicuro per esplorare ed elaborare le emozioni legate al trauma. La resilienza delle comunità locali può essere rafforzata attraverso programmi di sostegno psicosociale, consentendo alle persone di condividere esperienze comuni e costruire legami di solidarietà, per ridurre lo stigma della richiesta di aiuto e aumentare l’accesso alle cure. Quando si lavora con i bambini, si usano spesso metafore per spiegare concetti più complessi. Immaginiamo la nostra mente come un fiore che cresce in un giardino esposto alle intemperie. Queste sono eventi stressanti, traumi, perdite o altre difficoltà che mettono alla prova la nostra resilienza mentale. Mentre il fiore può piegarsi sotto la forza delle tempeste, ha radici profonde che gli consentono di restare ancorato al terreno. In modo analogo la resilienza umana ci aiuta ad affrontare le avversità, mantenendo una certa stabilità anche quando siamo esposti alle intemperie della vita. Tuttavia, anche le piante più forti possono subire danni durante le tempeste più violente, così come noi possiamo lottare con le difficoltà emotive quando le pressioni diventano troppo intense. In questi casi dobbiamo renderci consapevoli che qualcosa si è rotto, per cominciare a ricostruirlo. Riconoscere i traumi Il conflitto ha generato ferite invisibili ma profonde nella popolazione locale. Tuttavia, è possibile avviare processi di recupero e mitigarne gli impatti negativi. Tutto questo a condizione che i traumi vengano riconosciuti e si rendano prioritari. Nonostante tutte le difficoltà del contesto, le persone ci dicono: «Siamo tornate a casa e questo era l’importante. Ora, piano piano, si può ricominciare a ricostruire». Per resistere e per «ricostruire», però, bisogna imparare a farlo. Qualcuno avrà bisogno di essere accompagnato o sostenuto all’inizio, qualcun altro avrà bisogno di sentirsi ripetere che non esiste un modo «giusto» di sentire, che «va bene», che «possiamo ricominciare da lì», e ci si può aiutare a creare un luogo dove poter, insieme, prendersi cura delle radici e del futuro. Josefina, 40 anni e tre figlie, non usciva più di casa dopo aver visDICEMBRE 2023 | MC | 11

“ Uno dei momenti più significativi è stato quando ho deciso di affrontare la mia paura. suto quasi un anno prigioniera dalle milizie ribelli ed essere stata trattata come oggetto tra stupri e lavori forzati. Il mercato era uno dei luoghi ai quali aveva più difficoltà ad avvicinarsi. La presenza dei militari, la visione delle armi, i rumori forti e la folla, le creavano disorientamento, paura, disagio. Sua figlia, adolescente, che l’aveva accompagnata nel periodo di reclusione, aveva vissuto la stessa sorte, ma era riuscita a tornare a scuola ogni giorno quasi con normalità, dopo aver ricevuto le necessarie cure. «Non attraverso la strada e non apro la porta», diceva Josefina. Sentiva crescere dentro di lei un sentimento di inutilità, non riusciva ad affrontare le cose, come invece le altre persone della sua città stavano facendo, e non voleva comportarsi come se avesse dimenticato. «Uno dei momenti più significativi di questi mesi è stato quando ho deciso di affrontare la mia paura gradualmente - ci racconta Josefina -. Ho iniziato uscendo di casa per brevi periodi di tempo, accompagnata dalla persona che mi stava aiutando. Man mano sentivo più fiducia e facevo qualche passo in più. Ogni piccolo successo è stata una vittoria personale. Anche quando ho avuto delle ricadute e ho sperimentato momenti di panico, ho continuato a lavorarci. Con il tempo, la paura ha iniziato a perdere il suo potere su di me». Quando riconosciamo le paure e i traumi, quando siamo accompagnati in un processo di guarigione, ogni passo diventa sempre più facile. La parola chiave è | MC | DICEMBRE 2023 12 «consapevolezza globale», necessaria per superare queste sfide straordinarie e per costruire un futuro più sostenibile per le generazioni future. Giulia Moro e Paolo Ghisu MOZAMBICO Qui: Palma, uomini sfollati e ritornati in città, riuniti per un’attività di recupero. | Sotto: alcune case di Palma, sulla costa. GIULIA MORO Responsabile del settore «protezione» dell’Ong Helpcode a Cabo Delgado. Helpcode lavora in Mozambico dal 1988, e realizza progetti di aiuto umanitario nel nord del Paese dal 2020. Nello specifico, nel suo programma di protezione, Helpcode sostiene donne e bambini nel loro sforzo di riprendere una vita normale in seguito ai traumi subiti durante il conflitto. PAOLO GHISU È fotografo, videomaker e professionista nel campo della cooperazione allo sviluppo. Vive tra Italia e Mozambico. Ha già collaborato con MC: La baraccopoli nel Grande Hotel, agosto-settembre 2022.

DICEMBRE 2023 | MC | Due anni di combattimenti intensi. Di avanzate e di ritirate da ambo le parti. Di battaglie tra creste vertiginose e valli aspre. Una guerra fratricida, piena di vendette maturate in anni di tensioni represse. Un conflitto che ha fatto scricchiolare le fondamenta dell’Etiopia. Nel Tigray, tra il 2020 e il 2022, si sono confrontati l’esercito federale, che rispondeva agli ordini del governo di Addis Abeba, e le milizie tigrine, agli ordini del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Ma tra gli attori sono comparsi anche le milizie amhara e l’esercito eritreo (che oggi è ancora presente nel territorio etiope). A un anno dalla firma del cessate il La guerra interna in Etiopia è durata due anni. È intervenuta l’Eritrea e diverse altre potenze estere si sono «posizionate», in particolare fornendo armi. Un anno fa, la firma del cessate il fuoco, ma il conto delle vittime è elevatissimo e il Tigray è da ricostruire. fuoco che cosa è rimasto sul terreno? Qual è l’eredità di quei durissimi 24 mesi che hanno segnato la regione settentrionale del Paese? di ENRICO CASALE ETIOPIA GUERRA IN TIGRAY: A UN ANNO DALLA «PACE» Le braci restano accese Qui: un miliziano amhara nei pressi di Mehal Meda, dicembre 2021. 13 © Amanuel Sileshi /AFP

| MC | DICEMBRE 2023 14 ETIOPIA La storia di un missionario formatore in Etiopia UNA VITA IN SEMINARIO Padre Antonio Vismara ha dedicato la sua vita all’Etiopia, pur avendo lavorato anche in Kenya e Italia. La sua vocazione è stata quella di fare il formatore di altri missionari. E ha pure avuto la fortuna di avere a fianco un gruppo di appoggio inossidabile. Padre Antonio Vismara è nato nel 1942 a Ossona, in provincia di Milano. Terzo figlio, dopo un fratello e una sorella. Ottenuto il diploma da disegnatore tecnico scopre la vocazione e intraprende il percorso per diventare missionario. Nel giugno del 1972 è ordinato sacerdote. Alla fine dello stesso anno parte per l’Etiopia e inizia la sua missione a Meki. Lo incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata a Torino, dove vive dal 2021. «Fin dall’inizio il fondatore (Giuseppe Allamano) ha sognato l’Etiopia, ma noi (missionari in quel paese, ndr) diciamo che questo sogno non si è mai realizzato», ci confida con un sorriso sornione. Perché? Gli chiediamo. Oggi ci sono diversi missionari etiopici nell’istituto, questo è già un bel risultato. «Il governo non ha mai realmente accettato i missionari, volendo piuttosto progetti di sviluppo sociale. E neppure la Chiesa ortodossa ci ha mai voluti - continua padre Antonio -. Noi eravamo sul posto con dei visti di lavoro, realizzavamo progetti, e a fianco abbiamo fatto chiese, parrocchie, comunità cristiane, che sono molto attive anche oggi». Le difficoltà per ottenere visti e permessi di soggiorno ci sono sempre state, ma negli ultimi anni si sono inasprite. È quasi un dire: «bastiamo noi, non vogliamo più stranieri». Oltre a diversi missionari etiopi e alcuni keniani, come missionari della Consolata oggi sono presenti nel paese padre Edoardo Rasera, padre Marco Martini e fratel Vincenzo Clerici. Padre Antonio apprezza molto i missionari etiopi: «Sono molto fedeli, perché attingono dalla lunga tradizione dei monaci». Ma andiamo con ordine. Padre Antonio ha iniziato il suo lavoro a Meki, sede del vicariato nel 1973, poi ha lavorato anche a Modjo, nello stesso vicariato. I suoi incarichi sono stati fin da subito nel campo della formazione dei nuovi missionari, ruolo che ha mantenuto sempre: «Una vita in seminario», ci dice ridendo. Seguiva gli aspiranti missionari con lezioni sulla spiritualità dell’istituto, incontri personali, e con il discernimento. Aveva studiato teologia tra Torino e Washington e aveva fatto anche un corso per formatori. «Negli anni Ottanta lavoravo con il vescovo Yohannes Woldegiorgis. Quando il vescovo morì (nel 2002, ndr), mi chiesero di sostituirlo. Ma dissi loro, “no, qui ci vuole un etiope”. L’Etiopia è troppo complicata, occorreva un locale per districarsi», dice, quasi a giustificarsi. Dopo l’Etiopia, ha lavorato per tredici anni al seminario di Bravetta a Roma, e poi otto in Kenya, al seminario di Nairobi. È nel 2005 che viene richiamato in Etiopia dove è diventato superiore regionale e, successivamente, formatore al seminario di Addis Abeba: «Tenevo lezioni sulla nostra identità come missionari della Consolata, al pomeriggio, dopo i corsi universitari. Poi ero a disposizione per i cosiddetti dialoghi personali, perché la teologia insegnata in classe pone delle domande, ma la scuola soltanto non può rispondere perché sono questioni troppo personali». L’ultimo periodo etiopico il missionario lo ha passato nuovamente a Modjo. In tutti questi anni padre Antonio è stato accompagnato da un gruppo di amici, il «Gruppo Meki». Costituitosi nel 1973 a Ossona, nella sua parrocchia di provenienza, è composto da volontari, lo ha sempre appoggiato raccogliendo e inviando fondi per i suoi progetti sul campo, e facendo qualche visita. «Il gruppo è ancora attivo, dopo cinquant’anni. Io scrivo loro e vado a trovarli regolarmente. Loro continuano ad appoggiare le missioni a Meki», conclude con soddisfazione. Marco Bello © Domenico Brusa

guerra civile | Tigray | economia | Missione Le radici Facciamo un passo indietro. La guerra in Tigray è scoppiata nel 2020, ma le radici del conflitto sono molto più profonde. I tigrini sono stati il nerbo delle forze che hanno destituito, negli anni Ottanta e Novanta, Menghistu Hailè Mariam. Alleate agli eritrei hanno condotto una guerriglia che ha deposto il «negus rosso», ha portato all’indipendenza dell’Eritrea e alla nascita, in Etiopia, di un regime di cui proprio i tigrini sono stati il centro per quasi un trentennio. Decenni duri nei quali dall’alleanza con gli eritrei si è passati a un’aperta contrapposizione tra Addis Abeba e Asmara, culminata nella guerra del 1998. Una guerra, quest’ultima, che, anche quando le armi sono state messe a tacere, ha lasciato un lunghissimo strascico di tensioni tra Etiopia ed Eritrea. Solo l’avvento al potere del premier Abiy Ahmed (2018) ha portato a una svolta. Il nuovo leader, di etnia oromo, ha siglato una storica pace con l’Eritrea (nello stesso anno) e ha progressivamente messo ai margini il Tplf, che ha perso sempre più potere e si è arroccato nella propria regione di appartenenza. Le continue frizioni tra il governo federale di Addis Abeba e il Tplf hanno portato a un conflitto aperto nel gennaio del 2020. L’esercito federale ha condotto un’offensiva che ha, inizialmente, messo in un angolo le milizie tigrine. Solo nel giugno 2021 lo stato maggiore di Macallè è riuscito a prendere l’iniziativa e a lanciare una controffensiva che ha portato i propri reparti a 200-300 chilometri da Addis Abeba. Nel frattempo la disputa ha visto scendere in campo nuovi attori. A fianco del governo federale si sono schierate le milizie amhara, la seconda etnia dell’Etiopia che si contende con i tigrini alcune zone di confine tra le due regioni. Pochi mesi dopo è scesa in campo, a fianco del premier Abiy, anche l’Eritrea che, come abbiamo visto, aveva un antico conto da saldare con la dirigenza tigrina, ma, soprattutto, aveva pretese territoriali su una zona che confina tra Eritrea e Tigray. A supportare i tigrini è invece arrivato l’Esercito di liberazione oromo (Ola), formazione armata della frangia più estremista del popolo oromo (l’etnia più numerosa dell’Etiopia). Gli scontri sono stati durissimi e a subire le conseguenze più forti è stato il Tigray. Senza corrente elettrica, senza collegamenti al web, senza medicine e con cibo scarso a scontare gli effetti più duri dei combattimenti è stata la popolazione civile. Amnesty International ha anche, a più riprese, denunciato i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati soprattutto dai soldati eritrei nel nord del Tigray. Accuse rigettate da Asmara, ma che sono state confermate anche dai Medici per i diritti umani e dall’Organizzazione per la giustizia e la responsabilità nel Corno d’Africa che hanno denunciato le continue aggressioni sessuali, durante e dopo il conflitto, perpetrate dagli eritrei a danno delle donne tigrine. Fine del conflitto Nel 2022, il Tigray ha iniziato a cedere di fronte all’offensiva dell’esercito federale. Tra agosto e settembre 2022, l’entrata in scena dei velivoli senza pilota forniti ad Addis Abeba da Turchia, Iran ed Emirati arabi uniti ha permesso un’offensiva dell’esercito federale che ha messo in ginocchio i miliziani tigrini. Impossibilitati a sostenere ulteDICEMBRE 2023 | MC | 15 “ Nel 2022 il Tigray ha iniziato a cedere di fronte all’offensiva dell’esercito federale. Qui: padre Vismara nell’officina della scuola tecnica, a Meki, negli anni ‘70. | Sotto: nel periodo in cui è superiore regionale, con il vescovo del vicariato di Meki, Abraha Desta, su un ponte a Waragu (02/08/2008). © AfMC

riormente lo scontro, i vertici del Tplf hanno quindi accettato di sedersi al tavolo in colloqui di pace mediati dall’Unione africana. Il 2 novembre 2022 Addis Abeba e Macallè hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine al conflitto. Il bilancio di due anni di guerra è tragico. Secondo alcune stime sarebbero state circa 500mila le vittime, alle quali si aggiungerebbero due milioni di sfollati interni. Il Tigray è distrutto, ma anche lo Stato federale avverte forti scricchiolii nel suo assetto istituzionale. «Addis Abeba - riporta una ricerca dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano - ha sempre sottolineato il carattere di questione interna [del conflitto], rivendicando la propria piena sovranità nazionale e il connesso diritto e dovere, in quanto governo legittimo, di applicare la legge su tutto il territorio nazionale, imponendo quindi l’autorità centrale sulla ribellione “terrorista” del Tigray». Una visione che mette in dubbio la costruzione federale dello Stato a vantaggio di un forte potere centrale. «Il Tplf - continua la ricerca Ispi - ha insistito nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo ritenuto illegittimo per essere rimasto in carica nel 2020 dopo la scadenza del suo mandato, il duro intervento armato con violazioni indiscriminate a danno dei civili e il prolungato isolamento del Tigray che ha causato una gravissima crisi alimentare e umanitaria». L’internazionale La guerra in Tigray ha però avuto anche forti ricadute internazionali. L’Europa ha subito preso le distanze da Addis Abeba, e Bruxelles ha imposto un embargo delle armi tanto verso l’Etiopia quanto verso l’Eritrea. Gli Stati Uniti, un tempo fedeli alleati del premier Abiy, si sono dimostrati molto critici nei suoi confronti. Una tensione che ha raggiunto il culmine con la sospensione dell’Etiopia dall’African growth and opportunity act, la legge statunitense che prevede agevolazioni commerciali in favore dei Paesi che rientrano entro certi canoni prefissati. A trarne vantaggio sono state la Cina e la Russia. Pechino ha dimostrato subito un sostegno incondizionato ad Addis Abeba e ha criticato sia le sanzioni sia l’interventismo di Usa e Ue. Anche la Russia ha sostenuto il premier Abiy parlando della guerra come «un affare interno» nel quale non interferire. Altri due attori «minori» hanno tratto beneficio dal conflitto: la Turchia e l’Iran. Ankara ha riallacciato rapporti, fino ad allora freddi, con Addis Abeba. E ciò le ha garantito fruttuosi contratti nel settore della difesa, che hanno fruttato alle casse dei colossi turchi della sicurezza 51 milioni di dollari nel solo 2021. Non dissimile l’atteggiamento di Teheran che, come sottolinea la ricerca Ispi, «ha visto nelle tensioni tra Stati Uniti e Addis Abeba un’opportunità per mantenere profondità strategica nel Corno d’Africa». La testimonianza «L’Etiopia è lo specchio delle emergenze dell’Africa. Il Nord, al confine con il Somaliland, è stato investito da ondate di siccità. Il Sud è stato colpito dalle inondazioni. A Ovest devono fare i conti con 500mila rifugiati sudsudanesi e nella regione di Gambella con 80mila rifugiati sudanesi. E poi il Tigray che è uscito provato da due anni di guerra civile», a parlare è Giovanni Putoto, medico, responsa- | MC | DICEMBRE 2023 16 ETIOPIA

“ L’Etiopia è lo specchio delle emergenze dell’Africa. bile della programmazione del Cuamm medici con l’Africa, organizzazione da anni impegnata nell’assistenza medica nel continente. Putoto è reduce da un recente viaggio in Tigray dove la sua organizzazione è stata chiamata a intervenire per supportare il sistema sanitario locale duramente colpito dalla guerra. La tensione, racconta, non è terminata. I tigrini devono fare i conti con le rivendicazioni dei vicini amhara su territori confinanti. Non solo, ma devono continuare a sopportare la presenza dei reparti eritrei che non hanno abbandonato il territorio etiope. «Nel nostro viaggio - continua - non abbiamo visto militari eritrei. Sappiamo però che ci sono. Ce lo hanno testimoniato numerosi tigrini che abbiamo incontrato. Occupano ampie fasce di territorio al confine tra Etiopia ed Eritrea. Asmara non ha firmato l’accordo di pace e la loro presenza è un dossier che deve ancora essere affrontato e risolto da Addis Abeba». Gran parte dei morti, spiega Putoto, sono stati civili: uomini, donne, bambini vittime degli scontri e delle privazioni causate dal conflitto. A questi si aggiungono gli sfollati. Sono migliaia, perlopiù concentrati nelle periferie delle città. Solo nel nord ovest del Tigray sono 400mila, la maggior parte all’interno dell’abitato di Shire. Le condizioni della popolazione sono drammatiche. La malnutrizione acuta e grave è elevata, soprattutto nei bambini. Una situazione aggravata dalla sospensione degli aiuti in cibo da parte del Programma alimentare mondiale disposta a seguito dello scandalo della sottrazione di derrate da parte delle autorità etiopi. I leader tigrini hanno denunciato la morte per inedia di almeno 50mila persone a causa del mancato arrivo degli aiuti alimentari. Cifre che non possono essere verificate, ma che tracciano la situazione drammatica della regione. «Il sistema sanitario è al collasso - osserva Putoto -. In tutto il Tigray un solo ospedale è in grado di fare parti cesarei e trasfusioni di sangue, parametri minimi per stabilire se una struttura sanitaria funziona. Gli altri ospedali sono chiusi o sono stati intenzionalmente distrutti dalle truppe eritree. Solo il 20-30% dei centri sanitari è operativo. Il personale sanitario è deceduto o non lavora perché senza retribuzione. Mancano quindi operatori e farmaci. Le uniche strutture che funzionano sono quelle di proprietà della Chiesa cattolica che hanno fatto un lavoro preziosissimo. Anche le scuole sono chiuse. I ragazzi e le ragazze crescono per strada, lontano dalle aule». Il Tigray ha di fronte a sé la necessità di ricostruire. «È una sfida enorme - continua Putoto - perché non si tratta solo di riabilitare le infrastrutture distrutte o danneggiate, ma di ricreare i quadri professionali che sappiano guidare questa ricostruzione. C’è tantissimo da fare per restituire ai tigrini un sistema scolastico, sanitario e produttivo funzionante». Enrico Casale DICEMBRE 2023 | MC | 17 Qui: panorama etiope rurale, monte Yerer, Debre Zeit. | Sotto: un poliziotto nella regione Afar, al controllo dei camion di aiuti che transitano verso il Tigray, dintorni di Semera, maggio 2022. © Domenico Brusa © Michele Spatari / AFP

Vilnius, Lituania, stazione degli autobus, mezzanotte e venticinque. Nonostante sia prevista tra cinque minuti una partenza per Minsk (capitale della Bielorussia), sui tabelloni dei vari stalli non ce n’è traccia. Sarà per la stanchezza accumulata durante la giornata trascorsa nella città lituana, ma il fatto ci crea una certa apprensione. Decidiamo di cercare un improbabile ufficio informazioni aperto nel cuore della notte. Siamo io, mia moglie e una delle nostre due figlie. Inizia così il nostro viaggio di famiglia per raggiungere quello che, nell’animo di ognuno di noi, è un altro pezzo di famiglia. Sono i ragazzi e le ragazze bielorussi che, negli anni, abbiamo ospitato per periodi più o meno lunghi a casa nostra, allo scopo di offrire loro un’esperienza di vita lontana dalle zone contaminate. Alla stazione di Vilnius, nel frattempo, nel buio della notte, si è materializzato un autobus e dallo spazio circostante, apparentemente deserto, è emerso Nonostante il periodo turbolento, una famiglia di Moncalieri (Torino) ha visitato alcuni piccoli amici nella campagna bielorussa: ragazzi e ragazze che hanno passato alcuni periodi come ospiti in Italia, nell’ambito di un programma di accoglienza post Cernobyl. Qui scopre una realtà inaspettata. anche un capannello di viaggiatori che si confortano a vicenda sulla puntualità del servizio a dispetto delle omesse comunicazioni. La dogana fa paura Tra di noi scherziamo su come affronteremo la dogana. I racconti di amici che hanno recentemente attraversato la frontiera Lituania-Bielorussia parlano di controlli estremamente severi e il nostro voluminoso carico di coperte, penne, cioccolato e altri regali, temiamo che non passerà | MC | DICEMBRE 2023 18 testo e foto di EZIO CHEINASSO BIELORUSSIA VIAGGIO NELLA BIELORUSSIA PROFONDA Passaggio a Est

inosservato. È pur vero che mia moglie, sempre previdente, ha con se una lettera della fondazione «Aiutiamoli a vivere» (vedi box) che spiega la destinazione di quei beni. I temuti doganieri, invece, si rivelano non essere un problema, almeno per noi. L’unico disagio sono i tempi d’attesa in fila per lo scanner dei bagagli che allungano il viaggio notturno. Alle sei in punto del mattino arriviamo finalmente a Minsk. Siamo un po’ stropicciati e stanchi ma la gioia di incontrare Irina e suo marito Dima prende subito il sopravvento e le 5 ore e mezza per coprire meno di 200 km sono già un ricordo. Minsk, in trasformazione In attesa che l’hotel ci dia l’accesso al check-in, Irina e Dima ci rifocillano con una abbondante colazione e poi partiamo alla scoperta della capitale. Dima è uno chaperon fantastico e Irina è estremamente paziente nel gestire le nostre curiosità che spaziano dalla cucina al sistema di viabilità. Non è nemmeno da trascurare la grande capacità di creare confusione tipica della nostra famiglia. Con Dima nei panni di Google maps e Irina in veste di Google translate vediamo una città di circa due milioni di abitanti con un impianto urbanistico di evidente stampo sovietico (è stata quasi totalmente distrutta durante la Seconda guerra mondiale) caratterizzato da ampi viali ed enormi edifici in stile classicista socialista. Minsk è una città che sta vivendo una parziale trasformazione con la nascita di centri commerciali, di nuovi quartieri e l’innesto di costruzioni di nuova concezione come la biblioteca nazionale e i palazzetti per lo sport che paiono proiettarla decisamente nel futuro. L’apparenza è di ordine, pulizia e discreto benessere. Le proteste del 2020 però, non sono distanti. Memorie Minsk, come tutto il mondo ex sovietico, è fortemente legata al passato e soprattutto alla memoria dell’evento che l’ha vista maggiormente protagonista (suo malgrado): la Seconda guerra mondiale. La città ha subito due assedi ed è stata teatro di scontri militari violentissimi e sanguinosi oltre a essere stata la sede di una delle più numerose comunità ebraiche poi fisicamente cancellata dalla mappa cittadina. Visitiamo il museo che la città dedicato alla memoria di questa tragedia e, grazie a Irina e Dima, anche il memoriale di Chatyn. Chatyn è il nome di un villaggio a 50 km da Minsk in cui tutti gli abitanti furono rinchiusi in un magazzino che venne poi dato alle fiamme dai nazisti così come tutte e 27 le altre case. Il memoriale ricorda i 628 villaggi che hanno subito la stessa sorte e lo fa tramite una scenografia che lascia il visitatore senza parole. È uno di quei luoghi che ti mostrano la ferocia umana senza veli, in tutta la sua immensa crudeltà. A Chatyn c’è il rispetto della memoria del singolo e la vastità della tragedia di un’intera nazione. Un dato su tutti: nel periodo 1941-1943 circa un terzo della popolazione bielorussa è deceduto. Al termine del conflitto si sono contati complessivamente oltre due milioni di morti. Tutta la capitale è coinvolta nel ricordo, attraverso monumenti e musei. E si nota in questo così tanta cura e meticolosità che non può essere interpretata solo come propaganda politica. Altro “ Tutto il mondo ex sovietico è legato al passato e alla memoria della Seconda guerra mondiale. DICEMBRE 2023 | MC | 19 scuole | accoglienza | incontri | Memorie A sinistra: Minsk, capitale della Bielorussia, tramonto dal tetto dell’hotel Belarus. | Qui: banchi di frutta e verdura in un mercato coperto di Minsk.

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