Missioni Consolata - Ottobre 2015

Pagina precedente: donne yanomami camminano nella fore- sta; escono dal villaggio per la raccolta di frutti, per la pe- sca nei fiumi o per la caccia (limitata ad alcuni tipi di ani- mali). A destra : un’anziana yanomami saluta Hokosi alias Carlo Zacquini durante una recente visita a Catrimani. «Quando tornava dopo qualche mese, la foresta aveva già invaso la piantagione, gli animali ave- vano mangiato i tuberi di manioca e, a volte, ri- usciva ancora a trovare qualche banana o papaia. Doveva ricominciare quasi tutto da capo». «Questa modalità di presenza era proseguita per diversi anni senza passi decisivi: andando una o due volte all’anno per poche settimane era diffi- cile fare di più. Padre Bindo doveva lavorare molto duramente per avere qualcosa da mangiare e magari da offrire agli indios quando lo visita- vano. Tuttavia preferiva fare così piuttosto che andare nei villaggi, perché questi erano lontani dal fiume navigabile. Gli Yanomami erano indios di terra ferma e stavano lontani dai grandi fiumi a causa della presenza degli insetti e di altri popoli indigeni che, in passato, occupavano le rive dei fiumi navigabili. Per loro era più facile vivere vi- cino ai piccoli corsi d’acqua, in più soltanto pochi di loro sapevano nuotare». Requisito essenziale: una pista di atterraggio Fratel Carlo Zacquini incontrò per la prima volta gli Yanomami nel maggio del 1965 alla foce del Rio Apiaú, «Quando ero molto giovane, un difetto che ho perso con gli anni», precisa con simpatica au- toironia. Fu un momento sconvolgente per la sua vita. «Vivevamo vicino agli indigeni, cercando di osservare cosa facessero e di comunicare con loro, pur con molta difficoltà. La cosa che più mi colpì furono i loro sorrisi, dolci, sereni». Sul finire del 1965 i padri Calleri e Meldolesi orga- nizzarono una spedizione per fondare una mis- sione sul Rio Catrimani. Essa doveva avere una caratteristica fondamentale: essere raggiungibile da un piccolo aereo. I due padri risalirono il fiume fino a quando, all’altezza di una delle molte rapide incontrate lungo il cammino, trovarono dei sen- tieri da entrambe le parti del fiume. Erano molto stanchi e poiché quest’area si dimostrava adatta per una pista di atterraggio, cominciarono ad ab- battere la foresta per preparare il terreno. Lavo- rarono alcuni mesi riuscendo ad aprire la prima parte della pista: era lunga 500 metri e larga 30. Nel marzo del 1966 vi atterrò il primo aereo 2 . «Quando arrivai a Catrimani - racconta fratel Carlo - padre Bindo aveva già costruito quasi tutto il tetto dell’abitazione. La casa era però senza pareti e, quando pioveva, il vento portava acqua all’interno. Non c’era un metro quadrato si- curo dall’acqua. Io quindi costruii gli spioventi per far passare l’aria e il vento ma non la pioggia. Poi realizzammo un recinto per evitare l’entrata dei cani e un po’ alla volta iniziammo ad allevare ani- mali». La lingua yanomae «Appena arrivato, il rapporto con gli Yanomami risultò molto complicato. A cominciare dalle diffi- coltà linguistiche. Appresi una cinquantina di pa- role da padre Bindo, ma non avevo nemmeno la carta per scriverle. Ogni parola, la stessa parola, veniva usata con significati diversi, a seconda del contesto». «Una volta andai dall’altra parte del fiume con uno Yanomami a fare un giro nelle foresta. Ave- vamo un cane con noi. A un certo momento no- tammo delle grosse impronte sul terreno. Non avevo alcuna idea a quale animale esse apparte- nessero. Io e lo Yanomami iniziammo un dialogo surreale e comico (a posteriori). Io chiedevo, in portoghese, “Como chama?”. Egli rispondeva: “Chama”! E io ancora: “Como chama?”. E lui: “Chama!” Dopo un po’ il cane iniziò a correre con lo Yanomami. Io avevo con me una carabina cali- bro 22, mentre l’indio era disarmato». «Mi misi a correre anch’io, ma pur correndo (con molta fatica) non riuscivo a raggiungere l’animale. Pensavo di averlo perso. Il cane invece di abbaiare ci veniva incontro scodinzolando. Andammo avanti ancora un po’ finché l’indio mi indicò un punto davanti a noi. In quel momento vidi un ani- male nero, fermo in una pozzanghera di un ru- scello. Aveva le zampe in acqua. Sparai 2 o 3 volte finché lo Yanomami mise la mano sul fucile per abbassarlo, come per dire basta. Dopo un po’ l’ani- male si accasciò nell’acqua, colpito a morte. Lo ta- gliammo a pezzi e ne portammo una parte con noi alla missione. Poi tornammo con un gruppo di uo- mini per prendere il resto. La caccia fortunata fu occasione per fare una festa con carne per tutti. E io scoprii anche il motivo delle incomprensioni lin- guistiche: l’animale catturato era un tapiro che, in lingua yanomae, si chiama... chama !». DOSSIER MC L’INCONTRO © Daniele Romeo / 2015

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