Missioni Consolata - Aprile 2015

50 MC APRILE 2015 missione, trasformata in una specie di bisca dove gli uomini si riunivano a giocare a carte. Con loro misi su un gruppo di preghiera al sabato sera: sbadigliavano di continuo e mi chiedevano quanto tempo mancasse alla fine. Appena arrivato ridussi le messe da sei a tre, poi ne lasciai solo una, quella della domenica alle 10 del mattino. Nella cappella adiacente, dedicata a Sant’Agata martire, si celebra la liturgia con rito ortodosso: ho voluto fare un passo verso chi ha un altro credo. La numerosa comunità rumena pre- sente a Catania non aveva ancora un luogo di culto. È venuto anche il patriarca da Bucarest, ed è rimasto sorpreso da questa accoglienza, visto che in Romania la chiesa cattolica ha fatto fatica a trovare spazi. Negli anni ’80 abbiamo iniziato a lavorare con i tossicodipendenti, e sono arrivato a pensare di aprire una comunità. Ne parlai anche con Don Ciotti, che mi disse: “O fai il parroco, o dirigi una comunità”. Ma io volevo restare aperto a tutti, non volevo limitarmi a una tematica specifica. Vedi, qui è sempre stato un porto di mare. Le pro- stitute, i trans più anziani del quartiere, venivano da me spontaneamente, e cominciai a lavorare an- che con loro. Non conoscevo ancora la realtà della prostituzione. Dal 1990 la parrocchia diventa punto di riferi- mento di un gruppo di omosessuali credenti, i “fratelli d’Elpìs”. Adesso alla nostra messa parteci- pano anche tante persone di al- tri quartieri, che non trovano risposte nelle parrocchie di appartenenza». Cosa ispirava la vostra azione? «Lo spirito del Concilio. Quell’idea dell’Eucare- stia per tutti. Prima le prostitute non si avvici- navano per rispetto: non si sentivano degne, in quanto peccatrici. In- vece è proprio questo senso di indegnità che le avvicina a Dio. Abbiamo adottato una pastorale es- senziale fondata sulla gratuità dei Sacramenti, sul- Un emblema della diversità Entrando nel quartiere, incontriamo Franchina che vive a San Berillo dai primi anni ’80 - quando il «reato di travestimento» era ancora punito con il carcere -. È l’intellettuale della zona, forse la persona che più ha coscienza della vita e del fu- turo di San Berillo. «Risanare vuol dire inserire il quartiere alla città, farlo uguale, identico, dargli la stessa faccia… mentre questo quartiere è stato sempre diverso dagli altri e sarebbe giusto la- sciarlo così com’è: San Berillo è come l’elefante in piazza Duomo, un emblema di Catania». In Piazza delle Belle c’è un’edicola dove il Cristo dipinto sul muro ha sembianze femminili. «Ci sen- tiamo rifiutati dalla gente, ma amati da Dio. La gente non immagina che anche noi possiamo pre- gare. Ogni mercoledì ci riuniamo a casa mia, per recitare il rosario», conclude Franchina. La messa della domenica alla parrocchia del Crocifisso della Buona Morte, celebrata da Don Giuseppe Gliozzo, è molto partecipata dalla comu- nità locale. Lungo 50 anni di storia Nel nostro incontro, padre Gliozzo ripercorre i suoi cinquant’anni di sacerdozio, di cui più di qua- ranta passati come parroco a San Berillo. I primi anni del suo lungo apostolato li trascorre a Bronte, suo paese natale, nel seminario minore, dove ricopre il ruolo di assistente spirituale dell’A- zione cattolica. «Feci un’esperienza che non esi- steva: far uscire i ragazzi dal seminario». Nel 1970, passa al seminario maggiore di Catania dove cerca di applicare quella stessa politica: vuole che i giovani seminaristi vadano a studiare nei licei, che abbiano la possibilità di conoscere la vita fuori dal seminario. L’azione di padre Gliozzo suscita però critiche da parte delle gerarchie ecclesiastiche locali e non solo. «Aizzarono i ragazzi contro di me; quando mi incontravano, cambiavano strada. Poi fecero una raccolta firme e fui costretto a lasciare. Di quel gruppo di 150 seminaristi pochi intrapresero la strada del sacerdozio, e di quelli che continua- rono, molti l’abbandonarono qualche anno più tardi». Cosa è successo dopo? «Nel 1972 mi proposero di prendere in mano la parrocchia del Crocifisso della Buona Morte, così chiamata perché nella zona sorgeva il vecchio car- cere borbonico, dove i condannati a morte, prima di essere giustiziati, ricevevano la visita di un cap- pellano che gli porgeva un crocifisso affinché, ba- ciandolo, ricevessero l’ultima assoluzione. Lo sventramento del quartiere di San Berillo si era concluso alcuni anni prima del mio arrivo, e, quando vi fui mandato, trovai il vuoto, perché i vecchi abitanti erano stati deportati in altre zone. Corso Sicilia tagliava in due la città e i borghesi insediatisi nella nuova via signorile non interagi- vano con la parrocchia. C’erano solo contrabban- dieri di sigarette e prostitute. La chiesa era in dis-

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