Missioni Consolata - Dicembre 2009

P iù andiamo avanti nella presentazione del rac- conto dello «sposalizio di Cana» e più ci rendia- mo conto che esso ha senso dentro il contesto del vangelo come anticipo della rivelazione «dell’ora della gloria», che coincide con la morte e la risurre- zione del Signore. Nello stesso tempo, abbiamo co- scienza che il racconto acquista un significato anco- ra più profondo all’interno del contesto remoto che comprende tutta la Scrittura, perché, come abbiamo anticipato diverse volte, il racconto di Cana ha il va- lore di «commento» all’evento del Sinai in prospettiva cristologica. In sostanza, l’autore ci dice che la chiave di comprensione (ermeneutica) dell’Esodo, cioè del- la salvezza che è entrata nella storia, è Gesù di Naza- ret. Egli, infatti, si presenta come il discendente di Mosè, ma più grande di Mosè, perché compie ciò che a Mosè fu impossibile realizzare: fare entrare il popo- lo di Dio nella terra santa della promessa che egli an- nuncia e presenta come Regno di Dio. C HI STUDIA LA PAROLA ESPIA I PECCATI Il racconto di Cana e i temi in esso contenuti sono una rilettura cristologica delle tradizioni del Sinai, che l’autore descrive con i criteri dell’esegesi giudai- ca, secondo il metodo specifico che si chiama midrà- sh . Questa affermazione è importante perché colloca il vangelo di Giovanni nel contesto diretto del Giu- daismo, che fu la culla del cristianesimo nascente. Noi siamo abituati a leggere e interpretare il vangelo con categorie quasi esclusivamente greco-romane e rischiamo di perderne l’anima stessa con il rischio di travisarne il senso. Cercheremo di spiegare con sem- plicità in che modo il racconto di Cana sia un midrà- sh dell’Esodo e così offriremo uno strumento di rilet- tura del testo capace di andare ben oltre l’ovvio sen- so letterale che altrimenti, da solo, direbbe poco. L’ebraicità di Gesù, degli apostoli e della Chiesa na- scente appartiene al cuore della rivelazione del Nuo- vo Testamento e condiziona la nostra fede, in forza della quale noi stessi, credenti in Cristo, ebreo, figlio di ebrei, siamo discendenti di ebrei o, come afferma- va Pio XI, «spiritualmente semiti». La banalità e la superficialità sono nemiche della verità evangelica e della dignità umana che indaga, cerca, trova e vive. Ogni volta che diciamo cose scon- tate o improvvisiamo i nostri commenti sulla Parola di Dio, diventiamo colpevoli di «lesa Parola» perché la ri- duciamo a favola o a racconto morale, trasformando spiegazioni ed omelie in pillole di ovvietà che preten- dono avere una dignità edificante. Spesso gli annun- ciatori del vangelo mancano di vera «professionalità» e si riducono ad essere professionisti del banale, ali- mentando così l’ignoranza del popolo di Dio. Il quale popolo ha diritto ad avere invece il meglio degli studi esegetici, affinché il messaggio evangelico non si ri- duca ad una pia esortazione insipida, frutto magari di manie soggettive e di una dottrina moraleggiante che lascia il tempo che trova. I L RACCONTO DELLE NOZZE DI C ANA (8) A CANA FINISCE LA VEDOVANZA DI GERUSALEMME DALLA BIBBIA LE PAROLE DELLA VITA (43) (LC 24,46) a cura di Paolo Farinella biblista Così sta scritto

RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=