Missioni Consolata - Settembre 2009

MISSIONI CONSOLATA l’ho addosso, sui vestiti,nei capelli. Ancora adesso quando ci penso, ec- colo che puntualem’inonda le narici. La mattina seguente di buon’ora riparto per Auschwitz. Arrivo che hanno appena aperto. Sono le 8.30 e c’è poca gente.Vado direttamen- te al blocco delle camere a gas e ai forni. Zoltan, ancora assonnato,mi segue a fatica. Lo saluto davanti alla porta di legno delle docce. Entro. Mi hanno concesso due ore per po- ter lavorare in solitudine. Le stanze sono illuminate da una piccola lam- padina che pende dall’alto. Delle candele illuminano il pavimento dove venivano ammassati i corpi. Entro nella doccia. Prima di entrare, un cartello invita a lasciare l’accap- patoio lì. Mi metto nella stessa loro posizio- ne, alzo lo sguardo e osservo il jat della doccia, pensando all’esplosio- ne di terrore quando hanno capito che da lì usciva gas e non acqua. Gocce di sudore mi freddano la schiena. Il senso di nausea torna e scalpita nello stomaco. Zoltan, la mia ombra da due gior- ni, mi accompagna ai bagni. Lo tro- verò lì, quando uscirò dopo un po’, ancora stordita.Mi chiede perché voglio soffrire così. E già doloroso a- scoltare i racconti dei deportati, per- ché voler entrare nel loro tormento! Andiamo a pranzo da sua figlia, or- mai siamo amici.Mi scorta con la te- nerezza di un nonno e io lo interro- go con la curiosità frenetica di una nipote. La moglie è morta dieci anni fa stroncata da un cancro all’utero. Lui l’ha sposata appena usciti da Birkenau.Gli occhi blu ancora si illu- minano quando racconta del loro a- more. «Un amore povero,ma inten- so, vissuto giorno per giorno fino al- l’ultima notte quando l’ho lasciata andare da Lui» mi dice. Chiedo a Maria, la figlia di Zoltan, come può vivere al confine di un luogo così straziante. Il suo balcone si affaccia sulle casette avvolte dal fi- lo spinato.Mi spiega che la loro pro- prietà era lì: «È l’unico panorama! E nella vita bisogna anche sapersi ac- contentare di quello che si ha». N el pomeriggio torno ai cam- pi. Entro nella camera dei for- ni. L’odore di morte, di pelle i- nonda ancora l’aria. Fermi, immobili, lucenti come fossero stati appena spenti. I forni mi fissano. Io li guardo attraverso il mirino: sembrano di- stanti, invece sono lì a pochi centi- metri. L’odore della ghisa si mischia a quell’odore che brucia dentro e fuori i campi.Ne avrò i polmoni pieni do- po tre giorni.Dopo aver girato per o- gni singolo blocco,per ogni singola via,mi fermo a osservare la realtà e- sterna attraverso grandi e luminose finestre.Cosa pensavano? A chi pen- savano? Pregavano? Credevano an- cora in Dio? Un Dio che sembrava essersi dimenticato.Avevano ancora sogni e speranze? Quali? Quella sera girerò fino a stancarmi per le viuzze di Cracovia.Accendo il computer per scaricare le foto.Ogni foto è una fucilata.Gli scatti alle doc- ce sonomossi e lì che ho la consape- volezza che ricorderò ogni singolo minuto di questi giorni. La mano fer- ma di una fotografa, non ha avuto la forza di reggere la macchinetta. Birkenau, l’ultimo giorno, sarà il colpo di grazia. Percorro tutta la fer- rovia che arriva dritta nei campi.Un silenziomi grida nelle orecchie. Il cielo è blu. Limpido e terso fa com- pagnia a un sole che brucia gli oc- chi. Mi guardo attorno e vedo solo due binari che tagliano in due, chilo- metri e chilometri di casette recinta- te da filo elettrico spinato. E loro era- no lì.Abitavano lì, vivevano lì, lavora- vano e morivano lì. Sento i passi stanchi di Zoltan die- tro di me, continua a bere la sua bot- tiglietta d’acqua. È stanco. I ricordi pesano più della fatica fisica.Arrivia- mo alla fine della ferrovia con la te- sta, il cuore e le gambe straziati. ■ MC SETTEMBRE 2009 19 Forni crematori ad Auschwitz. A lato: targa con monito a non dimenticare l’olocausto.

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