Missioni Consolata - Marzo 2005

di provenienza dei giovani scolari e delle regole educative in cui erano cresciuti. «L'esperienza è iniziata con i cinesi - racconta Fernanda Torsello, insegnante e responsabile del progetto interculturale di "Integrazione Linguistica e culturale degli alunni stranieri"-. Erano i figli dei ristoratori. Poi, negli anni, sono arrivati i bambini arabi, latinoamericani, africani, e cosi via. Il primo boom è stato sei anni fa: avevamo parecchi maghrebini inseriti nelle prime classi». «Alcuni mangiavano seduti per terra a gambe incrociate - aggiungono altre maestre-, com'erano abituati nelle loro case d'origine, dove i tavolini sono spesso bassi e ci si siede su cuscini o tappeti. Rifiutavano diversi cibi e éera il problema di sostituire alcuni piatti con i pasti alternativi senza insaccati a base di maiale. Ora è più semplice, anche se le difficoltà continuano, soprattutto quando i bambini arrivano a metà anno scolastico e sono già grandicelli». «Ricordo un bimbo russo che, quando mi avvicinavo, alzava le braccia in segno di difesa - aggiunge un'altra maestra-. Non riuscivo a comprendere quale fosse il problema, poi ho capito che a scuota, nel suo paese, lo picchiavano, e che ne era rimasto scioccato». Afianco degli ostacoli nella comunicazione linguistico-culturale, il flusso continuo di arrivi e gli inserimenti ad anno scolastico già avviato costituiscono due fra le principali difficoltà che le scuole devono affrontare: le lezioni sono iniziate da tempo e le insegnanti devono trovare il modo per far recuperare ai nuovi scolari il percorso perduto, e contemporaneamente insegnar loro la lingua italiana. Le difficoltà sono facilmente intuibili. In particolare, i ragazzini d nesi e arabi manifestano i problemi maggiori: te loro lingue madri nulla hanno a che fare con le neolatine, e laddove un rumeno o un peruviano fa meno fatica a inserirsi, chi arriva dalla Cina, dal Magh~ reb o dal Medioriente, stenta di più. Omeglio, necessita e richiede un maggior sforzo personale, la presenza di insegnanti di «sostegno>> e di mediatori. Un altro aspetto dolente, in certi Dou!.r MC l mano 2005 pogino 30 casi, è quello delle relazioni tra insegnanti e genitori: i padri lavorano tutto il giorno e le mamme spesso non parlano italiano. Gti avvisi non vengono letti e i colloqui sono disertati. Anche se per alcune famiglie è vero proprio il contrario: la partecipazione è continua e positiva. Il quadro generale è dunque complesso e, tra un taglio di finanziaria e l'altro, i fondi per le esigenze scolastiche sono sempre meno. Tuttavia, l'esperienza di questi anni di progetto, e l'impegno delle insegnanti, hanno dimostrato che, dopo i primi mesi di difficoltà, i piccoli immigrati si inseriscono bene e partecipano pienamente alle attività. Una peculiarità della scuola Santorre di Santarosa rispetto ad altre, sia a Torino sia in altre città, è la scelta di avvalersi di mediatori linguistici italiani ma laureati nelle lingue straniere di appartenenza dei bambini: è loro convinzione, infatti, che l'integrazione passi attraverso la piena acquisizione degli strumenti linguistici e culturali del paese di residenza pur mantenendo legami con le proprie radici. In quest'ottica, «mediatore» significa «colui che media» tra la propria cultura e quella dei cittadini immigrati. Per la mediazione di lingua araba, ad esempio, vengono usate sia le schede didattiche previste dai programmi ministeriali, con il supporto di altro materiale linguistico, sia il Le:dco minimo, vocabolario interculturale illustrato, che si awale di 320 cartoncini con altrettante parole scritte in arabo, traslitterate e tradotte in italiano e corredate da disegni. Uno strumento predisposto anche per altre lingue straniere e molto utile sia per acquisire termini in italiano sia per mantenerli o ap· prenderli in quella d'origine. TRA SCUOLA EFAHIGUA, TRA IDENTIFICAZIONE E TRADIZIONE Se un ragazzino immigrato, ancora in età elementare, si trova a essere l'unico elemento straniero in una classe, è facile che possa tendere all'uniformazione, all'identificazione con il resto dei compagni e a provar disagio e vergogna per tutti quegli aspetti che possono contribuire a renderlo «diverso»: difficoltà linguistiche proprie o dei genitori, abbigliamento tradizionale o eccessiva religiosità. Ne risulta una sorta di rifiuto per tutto dò che rischia di separarlo dagli amici, dal gruppo di cui desidera, invece, fare parte. Nel caso dei bimbi maghrebini, tale malessere talvolta è manifestato attraverso un'ag~ressività verbale indirizzata verso 1 compagni connazionali, e l'utilizzo in senso spregiativo di espressioni quali «marocchino» o «arabo». Se in classe o nella scuola ci sono altri bambini stranieri - o della sua o di altre culture di appartenenza -, cercherà la solidarietà e l'amicizia con loro e poi, o contemporaneamente, l'integrazione con gli altri compagni. Racconta Nasira, una giovane universitaria marocchina: «Ricordo come fosse ora il mio primo giorno di scuola: ero vestita di rosso, avevo i capelli raccolti sulla nuca. In classe éerano altri stranieri: tre ragazzini sinti che mi hanno accolto con un bel saluto. (.. .) Ho sentito subito

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