Missioni Consolata - Dicembre 2021

3-4), la vicenda umana di Mosè sembra perfettibile. I più grandi modelli di cammino con Dio non sono necessaria- mente persone del tutto esem- plari. A contare non è la loro per- fezione, ma la relazione con l’Al- tissimo. Questo parla, di rim- balzo, anche a noi oggi: la «nor- malità», la banalità, e, spesso, anche l’imperfezione della vita di ognuno di noi, non sono un im- pedimento a una relazione inten- sissima e profonda con Dio. NESSUN INTEGRALISMO La stessa sensazione di imperfe- zione e, in fondo, di normale vita umana, è sucitata anche da un altro particolare: Ietro riconosce le grandi opere compiute dal Si- gnore (chiamato JHWH, il «nome proprio» del Dio d’Israele: Es 18,9), ma poi lo celebra facendo «olocausto e sacrifici a Elohim», chiamando Dio con il suo «nome comune». Siamo sicuri che sia un sacrificio al «Dio giusto»? Ancora una volta, non siamo certi di nulla. Si può immaginare e sostenere che, dopo aver lo- dato il Dio d’Israele, Ietro lo onori con il suo sacrificio. Ma d’altra parte non possiamo dimenticare che lui è un sacerdote madianita, incaricato di sacrificare ai suoi dèi, e che non ha ancora una co- noscenza profonda del Dio di Mosè. D’altra parte, Elohim, grammati- calmente, è un plurale. Se è vero che molto spesso nella Bibbia ebraica indica genericamente «Dio», in una forma plurale che è di onore, quello resta comunque un nome generico, che potrebbe anche indicare un sacrificio non a un dio singolo, ma a diverse di- vinità. Come spesso accade in questo racconto così centrale per la fede ebraica e cristiana, dobbiamo sopportare l’ambi- guità. Alcuni elementi sono tuttavia chiari: la Bibbia, nonostante al- cune apparenze e qualche pas- saggio diverso, non è integrali- sta, e infiltra in molti brani l’im- pressione di un culto, una mo- rale e una vita che non sono pro- prio immacolati e limpidi: se re- stano esemplari è perché si pon- gono sempre in relazione con Dio, non perché rispettino alla lettera norme e regole. UN POPOLO (ES 18,13-27) Il suocero di Mosè non ha però finito di immischiarsi nell’opera del genero. Si ferma qualche giorno da ospite e, nel frat- tempo, guarda che cosa suc- cede. Vede che ogni mattina tanta gente va da Mosè per re- golare le proprie questioni. La guida del popolo ascolta, valuta, fa capire quale sia la volontà di Dio e passa al caso successivo. Ietro scuote il capo, e spiega al genero che non approva: «Così non va bene! Hai un popolo nu- meroso, non puoi pensare di provvedere a tutto tu! Stabilisci invece degli anziani che giudi- chino le questioni ordinarie, e la- scia che ti inoltrino soltanto quelle più difficili!» (Es 18,17-23). Un consiglio di buon senso, semplice da elaborare, a cui Mosè, ci viene da pensare, sa- rebbe potuto arrivare anche da solo. Eppure, c’è bisogno che glielo fornisca il suocero, sacer- dote di quei madianiti con cui gli ebrei avrebbero in futuro fatto più volte la guerra (cfr. Nm 25; Gdc 6-7; ricordiamo che erano madianiti anche i mercanti a cui Giuseppe fu venduto dai propri fratelli: Gen 37,28-36). Il capo del popolo liberato dall’E- gitto, l’uomo che parlava faccia a faccia con Dio (Es 33,11), ha biso- gno del consiglio, peraltro non particolarmente geniale, del suo- cero, per imparare a gestire con- venientemente il proprio popolo. E deve imparare a delegare, a farsi da parte, a lasciare che altri lavorino al posto suo, a non avere tutto sotto controllo. QUALE INSEGNAMENTO PER NOI? Noi siamo abituati a spiegazioni didattiche o morali molto espli- cite, capaci di dirci con parole chiare che cosa fare e non fare, cosa è bene e cosa è male. In fondo, cerchiamo questo (magari Un cammino di libertà 34 dicembre 2021 MC persino per contestarlo) in tutte le tradizioni religiose o legali. Ma le forme religiose, soprattutto quelle più antiche, preferiscono raccontare, e comunicare conte- nuti attraverso narrazioni e storie. Il Primo Testamento, per lo più, non fa eccezione: nella storia di Abramo è in realtà contenuta la spiegazione del modo ideale con cui rapportarsi con Dio, così come i primi tre capitoli di Ge- nesi, che apparentemente sono una storiella carina e senza pre- tese, sono un condensato inten- sissimo della concezione dell’es- sere umano, e così via. Non fa eccezione l’Esodo, dove il rac- conto chiarisce il modo con cui relazionarsi con il Dio d’Israele attraverso un percorso lungo e articolato, nel quale all’iniziale in- teresse e stupore (Es 3-4) segue l’attento contemplare e soppe- sare dell’opera di Dio (Es 7-10), fino al momento in cui occorre prendere posizione (Es 11) e ad- dirittura decidere di buttarsi, ri- schiando la propria vita sulla fi- ducia di una semplice promessa (Es 14). Ci si poteva forse immaginare che il percorso fosse finito qui, ma in realtà si tratta ancora di in- vestire fiducia e ascolto in una promessa che non si presenta con manifestazioni eccezionali ma passa attraverso le fatiche e i rimpianti della vita «normale» (Es 15-17). Questo capitolo ci lancia verso un contesto ancora nuovo. Pos- siamo essere tentati di ridurre il cammino con Dio alle occasioni eccezionali, eroiche, ma queste sono soltanto un momento, un’introduzione o una svolta, di un percorso che passa dalla vita consueta, quotidiana, fatta di in- certezze, tentazioni, ritorni indie- tro, e anche di mediazioni, di suggerimenti magari banali, di percezione del proprio limite e trucchi per superarlo, persino di piccole o grandi miserie e fragi- lità. Nel cammino con il Dio d’Israele non è richiesta l’eccezionalità o la perfezione, ma solo di met- tersi in cammino. Angelo Fracchia (Esodo 10 - continua)

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