Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2021

tensioni con gli stati limitrofi, in particolare l’Unione Sovietica. Inoltre, l’esiguità della popo- lazione, in contrasto con l’ampiezza del suo terri- torio e la grande quantità di superfici disabitate, rendevano lo Xinjiang la base ideale per la ri- cerca e lo sviluppo nucleare. Il già citato poligono di Lop Nur, fu il primo grande nucleo industriale che attirò investimenti economici da Pechino verso la periferia del paese e anche il primo ar- gomento di scontro con gli Uiguri. Oggi i disastri ambientali e umani causati da questa corsa al nucleare cinese sono evidenti: una ricerca effet- tuata da Jun Takada della Sapporo Medical Uni- versity ripresa anche dall’Iaea e dal Ctbto ( Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organiza- tion - Organizzazione per l’applicazione del Trat- tato per il bando completo della sperimentazione nucleare) e pubblicata da Scientific American, stima che circa 194mila persone sarebbero morte nello Xinjiang a causa dell’esposizione a radiazioni dovute ai fallout nucleari e che altre 1,2 milioni avrebbero assorbito radiazioni tali da poter provo- care danni genetici, leucemie e cancri. Inoltre il poligono di Lop Nur ospita ancora oggi parte delle scorie nucleari non solo degli esperimenti militari, ma anche dei quarantasei reattori in funzione nel paese (nel 2041 è previsto lo stoccaggio di tutti i ri- fiuti nucleari cinesi in un impianto in corso di co- struzione nel deserto del Gobi). Pechino e il pericolo islamico Solo dopo gli anni Novanta il «caso Xinjiang» scoppiò in tutta la sua dirompenza: mentre in Occidente si festeggiava la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Urss, Pechino si preparava a fronteggiare la minaccia terroristica causata dai buchi neri lasciati dalle amministra- zioni delle nuove entità nazionali con le quali lo Xinjiang si trovò a condividere i propri confini. I nuovi paesi, infatti, non avevano nessun con- trollo del proprio territorio, e cellule armate or- ganizzate vi avevano stabilito i loro rifugi sicuri. La Cina dovette fronteggiare una minaccia che considerava ancora più grave di quella tibetana perché minava l’impianto unitario dello stato, e lo faceva trovando linfa in quel crogiolo di ideo- logie e di melting pot religioso che andava sotto il nome di jihad islamica. I gangli della rivolta ui- gura si ramificavano all’esterno dei confini nazio- nali insinuandosi tra le pieghe di una rivendicazione di autonomia nazionale che fino ad allora era stata solo un accenno. Il nascente movimento autonomista tradusse le richieste so- ciali del popolo uiguro in una letteratura separa- tista puntellando le sue rivendicazioni sulle uniche due caratteristiche che identificavano una improbabile nazione uigura: l’islam e la lingua. Pechino reagì nel modo più sbagliato: sperando di tranciare il cordone ombelicale con il naziona- lismo e il movimento armato, chiuse gran parte delle moschee e vietò l’insegnamento della lin- gua uigura nelle scuole. Il risultato fu, come era da aspettarsi, una controreazione ben più vio- lenta anche da parte di quella fetta di popola- zione che guardava con diffidenza l’estremismo e il fanatismo. Le (troppe) organizzazioni uigure Nel tentativo di catalizzare l’interesse internazio- nale sulla questione uigura nacquero diverse or- ganizzazioni, alcune delle quali appoggiate - per motivi politici o strategici - da altre nazioni, in particolare Stati Uniti e Turchia. Quest’ultima si inserì nelle pieghe della dissoluzione sovietica ri- proponendosi come guida culturale e politica dei popoli panturchi dell’Asia centrale. L’idea di An- kara di espandere la propria influenza su una re- gione di cui ritenne avere dei diritti di discendenza genetica e linguistica trovò sfogo nella protesta uigura. Circa 40mila Uiguri ancora oggi vivono in Turchia, paese che ha sempre storicamente ap- poggiato i movimenti nazionalisti ospitando lea- der leggendari some Yusup Alptekin ed Emint Bugra. Seguendo l’emigrazione turca in Germa- nia, anche la diaspora uigura ha spostato il pro- prio centro dirigente nel paese europeo esprimendosi in una miriade di movimenti che fanno capo al World Uyghur Congress e all’ East Turkestan Information Center (Etic). Le forti divi- sioni in seno alla comunità uigura facilitano però il compito cinese di deplorare le organizzazioni nazionaliste e denunciare attività illegali. Gli Stati Uniti, invece, conobbero un’immigra- zione uigura solo a partire dagli anni Novanta del XX secolo. A differenza della Turchia, l’ospitalità di Washington si esprime maggiormente in ter- 44 gennaio-febbraio 2021 A destra: un barbiere al mercato di Turpan, città sull’antica Via della seta. ssier

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