Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2021

popolo di Israele non è amalga- mato con gli egizi ed è nume- roso, tanto che, se l’Egitto fosse attaccato da nemici esterni, si potrebbe correre il rischio che si uniscano agli invasori (vv. 9-10). La paura del faraone sembra es- sere, soprattutto, quella della partenza degli ebrei, che si con- fermano, già solo per questo, oppressi. Può darsi che si tratti soltanto di un trucco letterario per mettere in moto la trama, ma colpisce che il punto di partenza sembri essere la mancanza di memoria. Il faraone non conosce più Giu- seppe, ma neppure il popolo di Israele pare essere particolar- mente capace di ricordare: non richiama il proprio antenato, non invoca Dio, non tenta neppure di riprendere la strada del deserto. Semplicemente, si è rassegnato a una condizione di schiavitù. A metà del libro, nella notte cru- ciale di Pasqua, molto si insi- sterà su questo invito a ricor- dare. Chi dimentica da dove viene, non sa dove potrebbe an- dare e si accontenta di restare schiavo. Quel Dio che aveva stretto un’alleanza con gli ante- nati non viene neppure invo- cato; sarà però lui stesso a met- tersi in movimento, sebbene il suo popolo non si ricordi di lui. Non si tratta in realtà neppure di un vero popolo: sono persone, separate tra di loro. È solo lo sguardo impaurito del faraone a renderlo un popolo. Quello sguardo, e poi quello compas- sionevole e protettivo di Dio. LE DUE CITTÀ Senza entrare ancora nella que- stione di quando effettivamente sia avvenuto l’Esodo e quando il libro sia stato compilato, per ora ricaviamo qualche suggestione interessante, anche se soltanto probabile e non sicura, dal nome delle due città egizie costruite con il lavoro degli ebrei (Es 1,11). Ramses era infatti rimasto nella memoria come un faraone im- portante e potente, anche molte generazioni dopo la sua scom- parsa. Citarlo significava spo- stare in un passato lontano la vi- cenda. Un cammino di libertà alle sue parole il valore di un principio di fondo della sua nar- razione storica. Se le cose rac- contate da Tucidide riguardo a un fatto storico interpretavano bene quel fatto, non importava che alcune cose fossero inven- tate, o supposte, restavano «vere». Il principio di fondo di Tucidite vale anche per l’Esodo, che è si- curamente vero e storico, per- ché rispecchia in modo auten- tico la vita e la storia di tanti cre- denti nei secoli. Sicuramente non riusciremo a precisare sotto quale faraone sia potuto avvenire l’Esodo (il testo non lo chiama mai per nome), né se davvero così tante persone abbiano potuto sopravvivere nel deserto per quaranta anni. Non lo sapremo mai perché per gli autori del libro questi due ele- menti, e anche altri che oggi per noi sono importanti, erano del tutto marginali. Secondo la tradizione (che trae le proprie conclusioni a partire dalle scivolosissime cronologie bibliche) ci troveremmo intorno alla metà del XIII secolo a.C., ma neppure questo è sicuro. Il bello è proprio questo: che anche noi lo possiamo trascurare. IL PROBLEMA DI PARTENZA ES 1,1 14 Chi ha letto il libro della Genesi, o almeno i suoi ultimi capitoli, sa chi è Giuseppe, penultimo figlio del patriarca Giacobbe, che, con i suoi sogni, e la capacità di in- terpretarli, acquisisce un ruolo di primo piano nell’amministrazione egizia, tanto da poter accogliere i suoi fratelli e suo padre nella regione quando una carestia sparge la fame in tutta l’area. Ma è nella sorte delle cose umane di essere dimenticate, ed ecco che sorge in Egitto un faraone che non sa più chi sia stato Giuseppe (v. 8). Il nuovo capo coglie solo il pro- blema immediato, ossia che il Intorno al VII secolo a.C., l’antica città di Pi-Ramses (nome com- pleto, preferito dalle iscrizioni egizie), disabitata da secoli, venne utilizzata come cava di pietre già lavorate per la costru- zione di una nuova città magaz- zino a Nord Est del Delta. Questa nuova città si trovò quindi con tante iscrizioni che citavano l’an- tica Pi-Ramses. Nella stessa zona, venne alla- gata la città di Pitom, che fu quindi spostata e ricostruita al- trove con il lavoro di braccianti non egizi. Che questi manovali non egizi potessero essere an- che ebrei è molto probabile (2 Re 23,33-35 lascia intendere che diversi ebrei erano stati seque- strati come prigionieri di guerra proprio in quel periodo). Peraltro la parola utilizzata per definire queste due «città-magazzino» (Es 1,11) è un prestito dalla lingua egiziana entrato nel lessico ebraico non prima del VII secolo a.C. Sembra insomma che l’au- tore dell’Esodo strizzi l’occhio al lettore, lasciandogli intendere che ciò che racconta riguarda vi- cende antiche, ma è rilevante anche l’oggi. FARE MEMORIA Questi particolari potrebbero sembrarci (e in effetti sono) mi- nimi, ma rivelano un atteggia- mento che tornerà spesso in Esodo: ciò che ha riguardato la generazione che dall’Egitto è uscita, non interessa solo loro quella generazione, ma tutti co- loro che in quella storia si ritro- veranno. Non è un caso che il rito ebraico di Pasqua fa ringra- ziare «per quello che il Signore mi ha fatto quando mi ha liberato dalla schiavitù egiziana». È questo il senso del memoriale, su cui tanto si concentrerà Esodo e quindi anche noi: non il ricordo nostalgico di un ottan- tenne che sa ancora i nomi di tutti i suoi compagni della prima elementare, ma l’ottantenne che, insieme alla moglie al suo fianco, richiama il giorno di sessanta anni prima in cui si sono incon- trati. Angelo Fracchia (Esodo 01 - continua) 34 Gennaio-febbraio 2021 MC

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