Missioni Consolata - Aprile 2020

Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, fu uno dei sacerdoti più noti e amati del Novecento italiano, grazie alle sue originali idee nell’editoria e non solo. * 77 aprile 2020 MC quel giovane sacerdote. Ecco perché lo so- stenne sempre e lo incoraggiò, dandogli op- portuni consigli. È lo stesso Alberione a rive- lare quanto l’Allamano gli suggeriva. Il pensiero dell’Alberione sull’Allamano. Sulla stima che l’Alberione aveva per l’Alla- mano non ci sono dubbi. In un’omelia ai chie- rici ad Alba nell’autunno del 1924 disse: «Vo- lete incontrare dei santi viventi? Andate a To- rino e visitate il canonico Allamano e don Ri- naldi; andate in Liguria e troverete padre Sete- ria; spingetevi in Sicilia e ancora potete incon- trare il canonico Di Francia». Sapeva indivi- duare i santi senza sbagliarsi. Così inizia la testimonianza, citata sopra, del 29 gennaio 1933: «Stimavo e stimo come santo il can. Allamano; seguii il suo consiglio in mo- menti importanti e me ne trovo contento; anzi ai chierici io riporto spesso il suo esempio, nelle esortazioni e meditazioni». L’Alberione si dilunga a riportare diverse espressioni dell’Allamano, da lui ascoltate, che lo hanno impressionato per la loro semplicità e concretezza. Eccone alcune: «Diceva ad un giovane sacer- dote: “Lavorare al confessionale, nella predi- cazione, nella scuola; ma prima riservare il tempo necessario per l’anima propria. Vi sono persone che si rendono inutili, per sé e per gli altri, col troppo fare per gli altri, trascurando se stessi; spesso mi vidi costretto a chiudere la stanza e non rispondere, e declinare inviti ad opere buone... per riservare il tempo per la preghiera, lo studio...”. Al superiore di un Isti- tuto religioso diceva: “Se volete gli istituti reli- giosi fiorenti, fate una porticina per entrarvi, un portone per uscire; cioè assicuratevi bene della vocazione vera prima di accettare; quando poi non danno prove chiare, licenziate con coraggio”. Era ammirabile il suo intuito e la sicurezza del suo giudizio; quando andavo da lui non mi la- sciava finire di parlare, gli bastavano poche parole, rispondeva con semplicità, brevità e sicurezza tali che infondeva coraggio ad ope- rare e pace di spirito. Avevo sempre l’impres- sione che in lui fosse qualche cosa di più che l’ordinario lume; tanto più che sempre vidi nella pratica essere stato buono il suo consi- glio. Ciò parecchie volte si è ripetuto. Lo osservavo con diligenza tutte le volte che ebbi occasione di avvicinarlo: ritenendo pre- zioso ogni momento che potessi vederlo: la sua presenza mi sembrava un libro parlante, una regola; mi pareva spargesse un po’ di quella grazia che certamente portava nel cuore, perché mi pareva che ogni suo atto, ogni sua parola, persino gli atteggiamenti e i movimenti più trascurabili fossero ispirati a quello spirito soprannaturale, tanto Egli vi- veva di fede e sempre padrone di tutto se stesso: parole, disposizioni, sensi, azioni. Il can. Allamano parlava con semplicità; non si turbava se altri diceva diversamente e anche se il suo consiglio veniva messo da parte, la- sciando la cura di tutto alla Provvidenza. Come parlava per motivo di carità, così per motivo di carità taceva: conservando l’indiffe- renza dei santi anche riguardo le cose più deli- cate, o che toccavano più direttamente la sua persona». In data 4 marzo 1943, dieci anni dopo avere mandato la sua prima testimonianza, l’Albe- rione scrisse al postulatore della causa di bea- tificazione dell’Allamano che lo aveva nuova- mente interpellato: «Ho ancora esaminato di- ligentemente l’attestazione scritta da me e data a suo tempo. Non ho da togliere o da ag- giungere altro». P. Francesco Pavese

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