Missioni Consolata - Maggio 2019

MAGGIO2019 MC 55 MC A meno riusciti a fare il riconosci- mento dei cadaveri per sapere chi fossero, ma forse per i parenti, in quei giorni, è stato meglio non sa- pere la fine che avevano fatto i loro figli». Ahmed Salah mi saluta e si incam- mina verso casa, ma dopo qualche secondo torna indietro per dirmi qualcos’altro: «Vorrei aggiungere un’altra cosa, un dubbio che per noi è sempre stato importante. All’inizio, durante gli scontri con il Daesh, venivamo continuamente bombardati. I colpi di mortaio si susseguivano notte e giorno, senza tregua. Poi le esplosioni cessavano non appena gli americani mette- vano piede nel nostro campo. La stessa cosa accadeva quando dalle nostre postazioni gli americani cer- cavano di colpire i terroristi, non centravano mai l’obiettivo al primo colpo, ma sempre al terzo o al quarto. Queste coincidenze sono accadute più di una volta e a tutti i peshmerga hanno sempre creato molto sospetto». Nel nome di Allah A Kirkuk incontro altri due ragazzi che sono sfuggiti per un soffio alle spedizioni punitive dell’Isis. Es- sendo cristiani erano uno i primi bersagli da persegure. Il modo in cui sono riusciti a scappare è dav- vero particolare: «Siamo scappati perché uno dei nostri amici era con il Daesh. Prima di arrivare a Kirkuk ci ha telefonato per avvisarci, così siamo riusciti a fuggire con le no- stre famiglie». Chiedo loro: conoscevate molte persone che si sono unite al Daesh? Se sì, perché lo hanno fatto secondo voi? «Ne conosce- vamo diverse, con due in partico- lare lavoravamo trasportando or- taggi e frutta nei mercati. Sai, all’i- nizio, quando ne parlavano e face- vano le prime riunioni nelle mo- schee, non sembrava una cosa così grande. Nessuno pensava che saremmo arrivati a questo punto, alla guerra, alle violenze. I miei amici si sono uniti al Daesh perché a loro sembrava una cosa giusta. Erano sunniti. Il governo sciita di Baghdad aveva impoverito le loro famiglie, vedevano la corruzione ovunque. Il Daesh aveva promesso che ci sarebbero stati soldi divisi più equamente nel nome di Allah. Io penso che quando si sono resi conto di quello che sarebbe suc- cesso, fosse troppo tardi per tirar- sene fuori. Sono riusciti però a sal- vare noi». Avete avuto più notizie di loro? «No, penso siano morti. Non sono più tornati a casa e le loro famiglie comunque sono sorve- gliate dall’esercito, nel caso do- vessero tornare o altri terroristi si facessero vedere». Gli Yazidi del campo profughi Gli uomini dell’Isis hanno perpe- trato violenze ovunque, ma c’è un gruppo su cui si sono particolar- mente accaniti, i credenti di una fede religiosa che i terroristi hanno praticamente decimato. Sono gli Yazidi, ritenuti dal Daesh, per il loro singolare credo religioso, ado- ratori del diavolo. Uno degli stermini più atroci che l’Iraq abbia mai vissuto si è consu- mato a Sinjar. Il 4 agosto 2014 gli uomini del Daesh hanno ucciso 5mila persone, mentre in 7mila sono stati rapiti, la maggior parte donne per diventare «schiave del sesso», e bambini, poi mandati nelle scuole di rieducazione per di- ventare militanti, erano tutti di fede yazida. Mirza è una di quelle persone riu- scite a fuggire dal massacro. Ha 39 anni, anche se dimostra molto più della sua età. Lo incontro in una tenda nel campo di rifugiati a Shari, nella provincia di Dohuk. L’I- raq ha decine di campi profughi destinati ai cosiddetti «rifugiati in- terni», quelle persone che hanno perso le proprie case e terre du- rante il conflitto contro l’Isis. In questo campo sono quasi 5mila. Vivono accatastati in tende consu- mate dalle intemperie. Mirza ha combattuto nell’esercito iracheno per 11 anni, per questo, quando l’Isis è arrivato a Sinjar, il suo nome era in cima alla lista delle persone da eliminare. Da 4 anni Mirza vive qui con la sua fami- glia. In una delle tende a lui desti- nate ha aperto un piccolo labora- torio dove ripara apparecchi elet- trici. Nel campo tutto funziona solo con i generatori a gasolio. Lo inter- visto mentre si riscalda davanti a una stufetta a legna. Fuori ci sono tre gradi e la pioggia battente ha ri- coperto le strade del campo di fango. Mirza, raccontami di come hai fatto a fuggire da Sinjar? In quanti siete scappati? «Prima del 4 agosto 2014, già da giorni sapevamo che il Daesh sarebbe arrivato. Avevo dei conoscenti che si trovavano vicino al loro campo, furono loro ad avvi- sarci di scappare. Ci dissero che al- trimenti sarebbe potuta finire molto male per noi. Con mio fra- tello prendemmo tutta la nostra famiglia: i nostri figli, mogli, fratelli e sorelle, eravamo in 30, la notte prima che arrivassero gli uomini del Daesh ci nascondemmo in montagna». Come avete fatto a sopravvivere? Siete più tornati a Sinjar?, gli chiedo. «Ogni notte scendevo nei villaggi a valle per prendere da mangiare, dalle montagne ab- biamo poi passato illegalmente il confine con la Siria dove siamo ri- masti per tre mesi, poi anche lì la situazione cominciò a peggiorare. Allora sono riuscito a trovare uno smuggler che ci ha portato di nuovo in Iraq e poi in Kurdistan. Abbiamo speso tutto quello che avevamo per il viaggio, 1.000 dol- lari. Sono in questo campo da al- lora». Conoscevi alcune delle persone che si sono arruolate con l’Isis? A molti faccio la stessa domanda, come hanno potuto farlo secondo te? Molte delle persone, prima che arrivasse Daesh, vivevano in pace e non avevano mai fatto del male a nessuno. • Guerra all’Isis | Campi profughi | Terrorismo | Yazidi •

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