Missioni Consolata - Luglio 2018

Insegnaci a pregare COSÌ STA SCRITTO di Paolo Farinella, prete 16. Pregare come gli uccelli del cielo e i gigli del campo © Ennio Massignan P regare , lo abbiamo già detto, non è presen- tarsi davanti a Dio e nemmeno compiere uffici o proclamare lodi e, paradossal- mente, neanche ringraziare Dio, perché tutto ciò è parte ancora di un rapporto esteriore: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vo- stro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8). Pregare è permettere a Dio di contemplare il no- stro volto orante e di ascoltare la nostra voce: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Si comprende bene che «essere preghiera» è difficile in modo particolare perché cozza con una mentalità e, più ancora, con un’abitudine radicata, difficile da superare. Al- meno proviamoci. Pregare è fare spazio a Dio sposo perché possa ve- dere, sentire, toccare e contemplare la sua sposa: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete venga; chi vuole at- tinga gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17). Se Dio è un contraente oppure un innamorato I testi mettono in rilievo l’atteggiamento di abban- dono che confligge con il protagonismo dell’«io sto, io faccio, io prego, io…». Nella 1 a puntata del nostro cammino sulla preghiera (MC gennaio-feb- braio 2017) siamo partiti dal Catechismo Maggiore di Pio X del 1905, composto da 993 domande e ri- sposte da «imparare a memoria», ridotto ad ap- pena 433 sette anni dopo, con il titolo Catechismo della Dottrina cristiana . Su di esso ci siamo formati tutti fino agli anni ’70 del XX secolo. La Parte III, Se- zione II, capitolo unico (numeri dal 414 al 433), tratta della «orazione o mezzo impetrativo». L’im- postazione, tipica del tempo, è trattativistica : Dio appare più come un contraente da tenere buono che un Padre da amare. Le regole che il testo offre sembrano più vicine a un galateo che a un rapporto affettivo. L’impianto è ancora ancestrale, nono- stante si faccia riferimento a Gesù Cristo, unico me- diatore, Dio è lontano, qualcuno cui bisogna ricor- rere per domandargli «quanto ci bisogna» (n. 414), supplicando «le grazie spirituali e temporali» (n. 419). Se non siamo ascoltati è colpa nostra «o per- ché preghiamo male, o perché domandiamo cose non utili al nostro vero bene, cioè al bene spiri- tuale» (n. 422). In questa ultima frase non ap- paiono più «i bisogni temporali», ma solo quelli spi- rituali. Il catechismo, inoltre, parla sempre di «pre- ghiere» al plurale, lasciando intendere che forse sia anche determinante la quantità (cfr. Mt 6,7). Nella 3 a puntata (MC aprile 2017) e in diverse altre a seguire abbiamo spesso richiamato, e non lo fa- remo mai abbastanza, Francesco di Assisi che, se- condo San Bonaventura, non era solito pregare perché «egli stesso era [diventato] preghiera». Quello di Francesco è un «essere» molto diverso che si distanzia e forse si oppone al Catechismo di Pio X, ancora troppo intriso di atteggiamenti for- mali esteriori. Anche del Targùm in uso al tempo di Gesù nella si- nagoga abbiamo parlato, ma occorre insistervi per- ché è sconvolgente la natura della preghiera che ci propone, presentandola come risposta all’anelito di Dio che non può vivere senza di noi, essendo «pazzo d’amore», che non si dà pace finché non vede il volto e non ascolta la voce dell’orante. Dio LUGLIO2018 MC 31

RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=