Missioni Consolata - Aprile 2018

60 MC APRILE2018 segnato tante cose: il senso della dignità umana, per esempio, e la vera, disinteressata amicizia. Se tu scendi dal tuo piedistallo di bianco, se ti mescoli a loro, eli- mini tutte le barriere, tutti i pre- giudizi che per tanto tempo ci hanno diviso, trovi in loro dei veri, fedelissimi e leali amici, ca- paci di fare chilometri a piedi, ca- paci di sacrificarsi per darti una mano». Filippini è in un certo senso una figura estrema. Un suo vecchio amico, Aldo Ungari, lo definisce come un uomo delle due culture. Una caratterizzazione che si per- cepisce dalla sua testimonianza- nella quale narra la sua «inizia- zione» all’esperienza di volonta- rio nell’ospedale burundese di Ki- remba costruito dalla diocesi di Brescia in omaggio al Papa bre- sciano Montini e che vide l’attiva partecipazione dei fedeli in ter- mini di sensibilizzazione e mobili- tazione. La gente partecipò non solo alla raccolta fondi ma anche alla progettazione e realizzazione in loco, tramite tecnici e volontari chiamati a supplire alle deficienze organizzative e di conoscenza dei «locali». Al teorema accettato quasi aprioristicamente della co- siddetta «assistenza tecnica», ben presto si ribelleranno i volon- tari di lungo corso alla Filippini, per l’appunto in nome di una vi- sione meno paternalistica e assi- stenziale. Da loro, dal dibattito in- ternazionale, dai limiti dell’aiuto allo sviluppo kennediano dei primi anni ’60 nasce l’imposta- zione più attenta alle dimensioni antropologiche, all’incontro con l’altro e a una cooperazione alla pari. Un momento propizio Non si sarebbe potuta manife- stare in nessun altro periodo sto- rico se non in quello. La decolo- nizzazione, l’apparire del «Terzo Mondo», l’immaginario della nuova frontiera, il Concilio e tutte quelle suggestioni di allora che con il carburante dato da figure di grande carisma e livello culturale (Helder Camara, Raoul Follereau, l’Abbé Pierre, Josué De Castro, Léopold Senghor, Julius Nyerere) hanno fatto percepire come pos- sibile e vicino l’approdo a un mondo migliore senza l’incubo della fame e del sottosviluppo. In quel contesto socioculturale ir- ripetibile nasce il movimento - perché di movimento si tratta - del volontariato internazionale, vero e proprio incunabolo di for- mazione per il mondo della soli- darietà internazionale. Un humus che, con il supporto dei volontari e le sollecitazioni esterne date dal dibattito in materia, permette di avviare quel percorso che agevola una impostazione progettuale per mezzo dell’intermediazione occidentale impersonata dal vo- lontario, sia essa in ambito edu- cativa, agricola o sanitaria. Sviluppo come Pace Inizia, con il passare del tempo, a farsi largo un’accezione diversa: non più organizzazione e pianifi- cazione in toto qui in Italia, ma, con l’indispensabile intermedia- zione dei laici, studio e realizza- zione del progetto lì, cercando di renderlo indipendente dalla pre- senza europea. Con ciò si rafforza un’impostazione più rispettosa - sulla carta - che cerca un minore impatto sulla cultura del luogo. Una data cardine di questa evolu- zione è il 1967. In un’Italia che, l’anno prima, ha visto una sorta di corsa alla solidarietà verso un paese in preda a una carestia, l’India, con una gigantesca e par- tecipata colletta diffusa, ha gran- dissima risonanza e impatto l’en- ciclica Populorum Progressio . In essa Paolo VI porta all’attenzione dei gruppi allora più attivi - quelli cattolici - lo «sviluppo» nella sua declinazione di «altro nome della pace» e come forma più lontana dall’idea di crescita e più vicina a quella di emancipazione sociale e COOPERAZIONE Qui sopra : l’ultimo libro di Antonio Benci, «Il prossimo lontano. Alle origini della so- lidarietà internazionale in Italia», edizioni Unicopli, 2016. A destra : un cooperante in Burundi al la- voro sul terreno, nonostante le stampelle. #

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