Missioni Consolata - Maggio 2017

38 MC MAGGIO2017 D «In genere le ragazze arrivano dalla Nigeria e hanno una media di 18-20 anni - spiega la donna -. A volte sono minorenni. Il mio compito è accompa- gnarle verso una nuova vita e dare consigli utili». Fatima sa che quello che dice viene ascoltato con particolare interesse. Sa di essere un punto di rife- rimento per le ragazze. E in effetti nessuno è più credibile di chi ha vissuto le stesse vicissitudini. Nessuno è più credibile di lei. Una storia d’inganno e di riscatto Ghanese d’origine, Fatima Issah arrivò in Italia come vittima di tratta, nel 2008. Raggirata da un uomo nigeriano conosciuto ad Accra, accettò di partire per l’Europa con l’illusione di un lavoro come cuoca o inserviente in qualche ristorante. Senza saperlo si mise al seguito di un trafficante, iniziando un viaggio rocambolesco: palleggiata da Accra a Dubai, da Istanbul a Pristina, fino in Mace- donia. Da lì, in treno verso Tessalonica e poi in volo in Repubblica Ceca, dove il faccendiere la imbarcò per Milano Malpensa prima di darsi alla macchia, per schivare i controlli sul traffico di esseri umani. All’aeroporto, un secondo uomo la stava aspet- tando per condurla a Torino, a casa di una donna nigeriana che si rivelò essere una madam pronta ad offrire a Fatima una vita d’inferno, invece di un lavoro legale. «Mi dissero che dovevo pagare un debito di viaggio di 45mila euro lavorando in strada come prostituta - ricorda Fatima -. Non volevo fare una cosa del ge- nere, ma non sapevo come fuggire e allora ho finto di essere d’accordo». La sera successiva Fatima, insieme ad altre donne, venne costretta a salire su un furgone con destina- zione Asti. Un’ora dopo era in piedi sul marciapiede di fronte al cimitero. «Una ragazza mi disse che do- vevo avvicinare le macchine e propormi per 50 euro - spiega la donna -. Se il prezzo fosse stato considerato troppo alto, dovevo chiedere 20 euro per prestazione. Volevo scappare ma non sapevo come». E il modo arrivò, come quando in un film tragico sopraggiunge uno spiazzante lieto fine. Una gio- vane nigeriana si rese conto dell’atteggiamento re- stio di Fatima. «Mi chiese come mai non facessi come tutte le altre. Le raccontai che mi avevano in- gannato e volevo scappare, anche se era pericoloso. Lei allora mi aiutò, consegnandomi un volantino dell’associazione Piam con un numero di emer- genza». Fatima aspettò di non essere vista, prese coraggio e si mise a correre. «Era buio e non sa- pevo dove stessi andando. Poi ho visto degli alberi e mi sono nascosta. Al mattino sono andata alla sta- zione dei treni e ho chiamato il Piam». I volontari dell’associazione si presentarono immediatamente e portarono Fatima nel centro di accoglienza fem- minile, dove ebbe la possibilità di fare denuncia di tratta alla polizia e da lì a poco ottenere il permesso di soggiorno per motivi sociali rilasciato ai sensi dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione. Il ricatto del malocchio Stessa sorte è capitata alla vicepresidente del Piam, Princess Inyang Okokon , originaria della Nigeria. In questo paese spesso le ragazze, prima di partire, vengono convinte a partecipare alla ceri- monia del juju , un rituale religioso tradizionale, pre- sieduto da una guida spirituale, che suggella un patto tra i trafficanti e le donne. I primi si impe- gnano a garantire un trasferimento sicuro in Eu- ropa e le seconde giurano che pagheranno il debito contratto. Il juju assume una funzione repressiva e schiavizzante quando le giovani, ormai consapevoli di essere cadute in una condizione di sfruttamento, cercano di fuggire. I trafficanti lo utilizzano con fare intimidatorio, ricordando alle donne che si tratta di un giuramento sacro, un contratto da cui non si può recedere, se non pagando il debito di viaggio, pena la morte della ragazza stessa o dei

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