Missioni Consolata - Marzo 2017

cifissi e poi nutriamo sentimenti razzisti davanti agli immigrati, guardandoci bene dal dirlo apertamente, ma pensandolo nel profondo della nostra paura. Dio, l’Eucaristia, la Parola sono un’abitudine che abbiamo ricevuto per tradizione e non sono mai entrati a circo- lare come sangue nelle vene della nostra esistenza di credenti in Dio. L’unico e il solo che ha preso sul serio questa pagina «sine glossa» è stato Francesco di As- sisi, il solo di cui, come abbiamo accennato, si poté dire che «non era uno che pregava, ma era preghiera egli stesso». La preghiera, infatti, non è un’attività, ma uno «stato» interiore di comunione/intimità tra Gesù e suo Padre, tra noi, Gesù e il «Padre nostro». È una consuetudine di dialogo affettivo e reale che si snoda lungo la vita, nella giornata, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Non è un processo psicologico emotivo, anche se questi aspetti sono presenti, ma è una dinamica di relazione tra due persone che si conoscono, si stimano, si accol- gono, si desiderano. Pregare è essere presente , non per educazione, ma esclusivamente perché l’altro è importante: la persona più importante, senza della quale non si può vivere. Spesso confondiamo la pre- ghiera con la recita di formule più o meno complesse che esprimono solamente il nostro bisogno psicolo- gico di «sentirci» protetti e al sicuro, col rischio che si possa confondere la preghiera con il parlare con se stessi. Ci affidiamo alle parole perché abbiamo paura del silenzio che è la condizione dell’ascolto. La persona narcisista che si parla addosso, non è ca- pace di ascoltarsi e di ascoltare, per cui di norma re- sta estranea non solo agli altri, ma anche a se stessa. Anche se utilizziamo i salmi e ci serviamo della Litur- gia delle Ore, non è detto che stiamo pregando. Se non sappiamo pregare, occorre imparare a capire chi si è, a quale livello di profondità e per quale scopo si vive e conoscere il perno attorno a cui ruota tutta la nostra esistenza. Essenzialità e priorità: abbiamo mai pensato a individuarle? Il primo passo della preghiera è «sapere cosa vogliamo» da noi stessi, «dove» siamo nel cammino della nostra vita e nella storia della sal- vezza. Da questa prospettiva la preghiera è la co- stante verifica di questo percorso, illimpidirsi lo sguardo per vedere «dove» si è e «dove» si va, per non correre invano o, peggio, a vuoto. La preghiera non è una routine che si consuma ogni giorno con le stesse modalità: Lodi al mattino, Ora media durante la giornata, Vespro la sera e Compieta prima di andare a dormire. Possibilmente trafelati. Molti religiosi e cri- stiani che pregano con il «Breviario» spesso s’illudono di pregare solo perché «recitano» la preghiera uffi- ciale della Chiesa, perché «obbligatoria» e quindi «per non fare peccato», limitandosi inevitabilmente alla materialità delle formule, in fretta e senz’anima. Non si rendono conto che hanno ingannato se stessi, illudendo gli altri che eventualmente li osservano. Se pregare è un rapporto d’amore, occorre essere in- namorati (è un concetto che ritornerà spesso in que- sta nostra riflessione) e, in ogni rapporto d’amore, i due innamorati devono sapere chi sono per se stessi e l’uno per l’altra, scoprendosi reciprocamente come l’uno sia la parte migliore dell’altra. Non si può es- sere innamorati a orario, allo stesso modo non si può pregare con lo scadenziario alla mano, come se pre- gare fosse una tassa da pagare. Un esempio chiarirà questo aspetto importante. Tutti dovrebbero sapere che l’Eucaristia è la preghiera per eccellenza della Chiesa, l’atto centrale della vita di Dio che si manife- sta nella vita dell’ ekklesìa perché è l’azione con cui il popolo di Dio offre al Padre il Figlio che si dona all’u- manità e allo stesso tempo lo riceve come benedi- zione da spargere nel mondo con il sacramento della testimonianza della vita. Altri tempi, altra preghiera I martiri di Abitène ( vedi Box ) nel 304 non esitarono a morire per celebrare l’Eucaristia domenicale e, al pro- curatore romano che voleva costringerli a desistere, ri- sposero senza tentennamenti: «Sine dominico, non possumus», cioè «Senza la Messa domenicale, non possiamo vivere» (Atti dei Martiri di Abitène, XII), per- ché qui è la Parola, il Pane, il Vino, il Perdono, la Frater- nità, l’Universalità. In un soffio: qui è il Cristo condiviso. MC R ABITÈNE O ABITINA (in latino Abitinae ) era una città della provincia ro- mana, detta Africa proconsolaris, oggi Tunisia, a Sud Ovest dell’antica Mambressa, oggi Medjez el-Bab, sul fiume Medjerda secondo una indicazione di Sant’Ago- stino, vescovo d’Ippona (cf. Contra epist. Parmeniani , III, 6, 2 = CSEL 51,141; cf anche J. Schmidt, in Pauly- Wissowa, Real-Encyclopädie der klassischen Alter- tumwissenschaft , I, 1, 101, s.v. Abitinae ). Ad Abitène viveva una comunità cristiana. Il 24 febbraio dell’anno 303, l’imperatore romano Diocleziano aveva emanato l’editto contro i Cristiani, ordinando di distruggere i li- bri sacri, i luoghi di culto in tutto l’impero e proibendo, pena la morte, ogni assemblea per celebrazioni reli- giose. Il vescovo del luogo, Fundano, si adeguò imme- diatamente all’ordine imperiale, mentre 49 Cristiani, tra i quali vi era anche Dativo, senatore, e Restituta, continuarono a radunarsi illegalmente con il presbitero Saturnino, celebrando l’Eucaristia. Arrestati, furono tradotti a Cartagine, la capitale della provincia romana per essere processati, il 12 febbraio del 304, davanti al proconsole Anulino. Nessuno abiurò, ma tutti fiera- mente affermarono il loro diritto di essere cristiani e molti subirono la tortura, morendo. Uno di loro, Eme- rito, interrogato sul perché avesse disobbedito all’or- dine dell’imperatore, rispose la frase ormai celebre: « Sine dominico non possumus - Non possiamo [vivere] senza [il giorno del] Signore», cioè senza la celebra- zione dell’eucaristia domenicale (cf. Martyrologium Romanum , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vati- cano 2001; «Passio SS. Dativi, Saturnini Presb. et alio- rum», in Pio Franchi Dei Cavalieri, Note agiografiche. Studi e testi, n. 65, fsc. 8, Città del Vaticano 1935). MARZO2017 MC 33 L’Eucaristia è non solo «un sacramento», ma la vita stessa della Chiesa perché è l’annuncio al mondo che Cristo è risorto e «se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). Come può, dunque, l’Eucaristia diventare un’abitudine, un atto di devozione, un dovere/ob- bligo/precetto «per non fare peccato»? Si può amare per dovere? Se l’amore fosse un dovere, nessuno ame- rebbe e nessuno si sposerebbe e nessuno avrebbe figli

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