Missioni Consolata - Aprile 2016

ITALIA 66 MC APRILE 2016 data dicendo di aver “già dato”». Nel club Bianca ha trovato una seconda famiglia, che l’ha aiutata a ricostruirsi una vita. «Adesso non bevo da quattro anni, ho di nuovo un lavoro, e c’è stato an- che un riavvicinamento con mio padre. Ma, certo, non avere vicini i miei cari mi ha reso tutto più dif- ficile». In casi simili, all’interno del club è prevista la figura di «familiari soli- dali» che affiancano la persona sola: possono essere amici o altre famiglie del club. «Si tratta di una forma di cittadinanza attiva, quella solidarietà intesa come in- terdipendenza fra individui di cui parlava Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis : non una vaga compassione o un superfi- ciale intenerimento per chi si ri- tiene “portatore” del problema, ma un’autentica condivisione, perché comprendo che potrei es- sere io a trovarmi al posto dell’al- tro», spiega Alberini. «Come dice la Sollicitudo , tutti siamo respon- sabili di tutti. E alla fine, come sanno bene i servitori insegnanti e i membri del club, partecipare agli incontri è per ciascuno fonte di benessere e arricchimento per- sonale, e occasione per svilup- pare nuove amicizie». Spezzando il cerchio della solitudine in cui l’alcol imprigiona. Astinenza e sobrietà L’approccio hudoliniano punta non tanto all’astinenza, cioè la ri- nuncia all’alcol, quanto alla so- brietà intesa come percorso di crescita e maturazione. «Se, ad esempio, uno smette di bere ma continua con i suoi vecchi com- portamenti, in famiglia e fuori, si- gnifica che non è ancora sobrio», spiega Alberini. A cambiare stile di vita dovrebbe essere l’intera famiglia, sia smettendo di bere, per rispetto e sostegno alla per- sona, sia cercando di intervenire sulle dinamiche relazionali che sono causa/effetto del problema. Non bisogna però pensare che i club siano la panacea per tutti i mali. Roberto, 60 anni, la maggior parte dei quali passati a bere, ci racconta: «Sono in un club da un anno e mezzo, e adesso sto bene, ma ho dovuto seguire un lungo percorso in cui è stato fondamen- tale l’appoggio che ho trovato al Sert (Servizio per le tossicodipen- denze). Non credo che ce l’avrei fatta solo attraverso la solidarietà e l’amicizia che si creano nei club o in altri gruppi di auto aiuto». Dietro l’angolo c’è poi sempre il rischio di ricadute, anche dopo molto tempo. «Sono stato 15 anni senza bere, poi un giorno, convinto di aver superato definiti- vamente il problema, sono en- trato in un bar per un bicchiere. Ma dopo il primo non sono riu- scito più a fermarmi», racconta Giovanni. «Per fortuna l’espe- rienza passata mi ha fatto risuo- nare un campanello d’allarme, e dopo una settimana ho deciso di tornare al club, che avevo lasciato da un paio d’anni. Lì sono stato Vin santo N essuno può ritenersi im- mune dalla tentazione della bottiglia. Lo sanno bene i preti ospitati nella comunità tera- peutica San Francesco di Monse- lice, in provincia di Padova: fon- data negli anni ’80 da un gruppo di frati che hanno scelto di vivere la pienezza della vita monastica mantenendo nel contempo l’aper- tura agli altri. Insieme ai frati vivono persone con problemi di droga e di alcol, inclusi (per il secondo caso) alcuni sacer- doti e religiosi. Fondamentale per questa comunità è stato l’incontro con Vladimir Hudolin, il creatore dell’approccio ecologico-sociale, che ha ispirato il programma tera- peutico di Monselice: coinvolgi- mento della famiglia come risorsa per l’ospite, scelta di appoggiarsi al proprio territorio, divieto asso- luto dell’uso di droghe e di alcol anche per gli operatori. Il recupero prevede un periodo re- sidenziale in comunità, più una fase di reinserimento sociale e la- vorativo, favorito di recente dalla creazione di una cooperativa per la manutenzione di aree verdi, puli- zia e servizi. Una curiosità: per i sacerdoti che hanno il problema dell’alcol e non possono celebrare l’eucarestia con il vino, il diritto ec- clesiastico prevede la possibilità di utilizzare succo d’uva non fermen- tato (mosto). Stef. Gar.

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