Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2016

di paura o di grave turba- mento». Vi sono poi diversi testi che possono orientare la ri- flessione, come le linee guida ela- borate dalla soppressa Agenzia per il Terzo settore o la Carta di Trento per una migliore coopera- zione, documento la cui redazione ha coinvolto molte realtà no pro- fit italiane. Molto citato è il Codice di condotta adottato dalle Ong ir- landesi: i principi cardine richie- dono, fra le altre cose, di rappre- sentare non solo il contesto speci- fico ma anche quello più ampio, di catori. Obiettivo: arrivare a «un codice di condotta e a un organi- smo autonomo di autodisciplina». I riferimenti normativi non man- cano, vedi il Codice di Autodisci- plina della Comunicazione Com- merciale emanato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria. L’articolo 46 del codice è tutto de- dicato alla comunicazione sociale, che deve evitare di «sfruttare in- debitamente la miseria umana nuocendo alla dignità della per- sona, né ricorrere a richiami scioc- canti tali da ingenerare ingiustifi- catamente allarmismi, sentimenti Cooperando… 70 MC GENNAIO-FEBBRAIO 2016 evitare immagini e mes- saggi che possano creare uno stereotipo, discriminare persone, situazioni o luoghi o creare sensazionali- smo, di non utilizzare immagini, messaggi, e casi di studio senza la piena compren- sione, partecipa- zione e autorizza- zione dei soggetti coinvolti, garan- tendo loro la possibilità di comunicare le loro storie o ver- sione dei fatti e rispettare la loro volontà di essere o meno nomi- nati o identificati. 5 DOMANDE A PADRE GIGI ANATALONI, direttore di Missioni Consolata Direttore, la compassione è un tema caro ai cri- stiani e mai come ora, con il Giubileo sulla mise- ricordia in atto. Come si distingue fra compas- sione e pietismo? Compassione è «patire con». Ha compassione non tanto chi versa una lacrima, mette una monetina o stacca un assegno e poi continua come prima, ma chi si sporca le mani, chi fa diventare l’emozione uno sti- molo per cambiare il suo stile di vita oltre che per aiutare gli altri a migliorare la propria. «Pornografia del dolore» significa usare il do- lore per vendere. Sei d’accordo con questa defi- nizione, usata da chi critica l’uso d’immagini forti per le campagne di raccolta fondi? L’espressione è provocatoria e fa riflettere. La condi- vido, certo, e mi chiedo perché proprio quel mondo che ha criticato tanto i missionari del passato accu- sandoli di paternalismo, oggi senta il bisogno di co- municare così. Mi sa tanto di una mossa quasi dispe- rata in risposta all’assuefazione e all’indifferenza, alla crisi economica che attanaglia tutto e tutti, ai tagli degli aiuti pubblici per la cooperazione, al moltipli- carsi di onlus (anche micro) che erodono l’efficacia del 5x1.000 e frammentano la base dei sostenitori, e all’aggravarsi dei problemi di tutti in questa situa- zione di «terza guerra mondiale» e di emergenza cli- matica. Il rischio, nell’uso di immagini simili, è quello di peggiorare sia l’assuefazione che l’indifferenza. Ma quando le proposte ragionate non funzionano, che fare? Lo spot di Save The Children , come a suo tempo il reality Mission , sono solo gli episodi più re- centi di un fallimento comunicativo che sembra avere radici più lontane. Che cosa si doveva fare diversamente - anche nel mondo missionario - per comunicare il Sud del mondo senza pietismi e stereotipi? Più che di fallimento comunicativo direi che si tratta di un cambiamento profondo nel modo di comuni- care. Un tempo, e vado indietro anche cent’anni, erano solo le poche riviste missionarie, come MC, che pubblicavano immagini forti. Anzi, posso dire che le edulcoravano perfino per renderle più accettabili al nostro pubblico (per esempio, mettevano i vestiti a chi normalmente non li aveva). Il risultato era co- munque garantito, sia nel cercare di presentare con rispetto che nel suscitare sentimenti di partecipa- zione. Oggi, invece, le immagini forti arrivano a tutti: tante, troppe, insistenti. Il disastro diventa spettacolo e si confonde con la fiction . Di conseguenza, ecco il problema: come far capire che non si tratta di una fiction e come catturare l’attenzione abbastanza a lungo da far sì che l’emozione diventi azione, sia pur breve, puntuale e mirata? Ecco le immagini che toc- cano prima il cuore, nella speranza che arrivino an- che alla ragione. Un nome, una storia, un’immagine penetrano più di un ragionamento. Solo una mino- ranza - e sono quelli che già si impegnano nella soli-

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