Missioni Consolata - Febbraio 2011

FEBBRAIO 2011 MC 31 17.28) per Gedeone e la moglie filistea di Timna (cf Gdc 14,12.14-15.17). Per le nozze di Tobia e Sara, in epoca post-esilio, si fa un banchetto di quattordici giorni nella casa di Raguele e Edna genitori di Sara nella città babilonese di Ecbàtana (cf Tb 7,1; 8,19-20; 10,7: mss BA) e altri sette giorni nella babilonese Nìnive nella casa di Tobi e Anna, genitori di Tobia (cf 11,19: mss BA). Al tempo di Gesù, la Mishnàh pre- scriveva sette giorni: «Se ad uno sposo si manifesta una piaga, gli si concedano i sette giorni del ban- chetto, sia per lui che per la sua casa e per il suo ve- stito» (Nega’im 3,2; cf Talmùd Nega’im 21a). Questa prescrizione posticipa la dichiarazione di impurità dello sposo, tenendo conto della figura dello sposo, della famiglia e delle spese fatte (vestito). Ecco una prova bella di legge «umana», di un principio che s’incarna nella situazione concreta di una persona e non resta astratto. Vi è discussione sul giorno della celebrazione per motivi che sarebbe lungo spiegare in un articolo. La Mishnàh (Ketubòt 1,1) stabilisce che esso si svolga il 4° giorno, cioè mercoledì, se la sposa è una vergine; se invece è una vedova al 5° giorno o giovedì. Il mo- tivo è pratico: il tribunale si riuniva due volte a setti- mana, il lunedì (2° giorno) e il giovedì (5° giorno). Se la sposa non fosse stata trovata «vergine», il marito poteva appellarsi al tribunale il giorno dopo, accu- sarla di adulterio e pretenderne la lapidazione. Il problema, naturalmente non si pone per la vedova, che poteva sposarsi il giovedì. Durante l’occupazione romana (dalla fine sec. I a.C. ), invalse l’uso di anticipare il matrimonio al 3° giorno, cioè al martedì perché gli invasori spesso e volentieri prelevavano la sposa la notte stessa del matrimonio e la restituivano l’indomani, esercitando lo « jus primae noctis ». Per questo motivo la tradizione dice: «Per quanto riguarda la vergine che doveva sposare il mer- coledì, il nemico aveva deciso che fosse consegnata prima al governatore; per evitare questa umiliazione alla fidanzata, fu stabilito che le nozze si celebrassero il martedì. Una volta introdotta, tale usanza, rimase in vigore» ( Talmud babilonese, Ketubòt 3b). La stessa sentenza si trova in altri testi: «All’epoca del pericolo (= dominazione romana) invalse l’uso di sposarsi al 3° giorno (= martedì), e i saggi non vi si opposero» ( Mi- shnàh, Ketubòt 1,1; Talmùd Ketubòt 25c). Stabilito in modo definitivo il «terzo giorno», si volle anche trovare un senso proprio, facendo riferimento al terzo giorno della creazione, descritto nella Ge- nesi, e che è l’unico giorno in cui Dio creatore dà due benedizioni, una alle acque che chiama «mare», una all’asciutto che chiama «terra» e per due volte dice che «era cosa buona» (Gen 1,10.12). Quale giorno migliore per affermare la fecondità del matrimonio? (cf Dej, Marriage, 703). IL MATRIMONIO BENEDIZIONE D’ISRAELE La festa di nozze iniziava al mattino presto in casa della fidanzata che i parenti vestivano con l’abito nu- ziale e le coprivano il volto con un velo che le na- scondeva anche i capelli; le amiche della fidanzata le mettevano attorno ai fianchi una cintura. Solo alla sera, finito il primo giorno di festa, l’uomo poteva to- gliere il velo e sciogliere la cintura che simboleg- giava la sposa «ornamento dell’uomo» (Gdt 9,2; Ger 2,32; Pr 12,4; Ct 3,11). Accompagnato dai suoi familiari, invitati e amici, lo sposo si dirigeva verso la casa di suo padre, dove si svolgeva lo sposalizio e la festa conseguente. Gli amici portavano anche alcune torce per illuminare la sera, perché non di rado si faceva anche tardi, se le trattative nuziali che terminavano con un con- tratto (ebr. ketubàh), fossero andate per le lunghe (cf 1 Mac 9,37-39; Mt 25,5-6). Anche la fidanzata partiva dalla casa paterna per dirigersi alle nozze; nel lasciare la casa paterna, accompagnata dalle damigelle d’onore, custodi della sua bellezza, into- nava canti di lamentazione per il dispiacere di ab- bandonare la sua famiglia. Il padre dello sposo benediceva la sposa con sette benedizioni, cioè con la pienezza della benedizione che esprimeva l’augurio della fecondità. Il termine «benedizione» in ebraico è «berakàh» la cui radice (B_R_K) ha attinenza con gli organi sessuali ma- schili che per gli antichi trasmettevano da soli la vita, mentre la donna era solo un’incubatrice per te- nere caldo e far maturare il seme maschile 3 . MC RUBRICHE # Matrimonio ebraio, oggi.

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