ITALIA Un sistema emergenziale Fare buona accoglienza è una sfida complessa anche per quegli enti pubblici e del terzo settore che accettano di raccoglierla mettendo in campo progetti di inclusione coraggiosi ma dagli esiti incerti. La complessità deriva anche dal fatto che parliamo di un sistema italiano di accoglienza che, forse, a ventuno anni dalla sua nascita, ancora non c’è2. Convivono piuttosto due sistemi, totalmente difformi tra loro, come le logiche che li sottendono. Da una parte, quella emergenziale, che alimenta da circa due decenni il discorso politico mediatico. Questo approccio concepisce i flussi migratori come qualcosa di transitorio che, prima o poi, si esaurirà e l’accoglienza solo in termini di contenimento in centri di grandi dimensioni per i quali, in un inesauribile esercizio di fantasia, vengono coniati via via nuovi acronimi dietro cui si celano misure sempre più restrittive dei diritti e delle libertà delle persone migranti3. Dall’altra parte, invece, c’è la spinta inclusiva incarnata dalla società civile organizzata che prova a sperimentare dal basso, in alleanza con le istituzioni locali (i comuni, singolarmente o in forma associata, in testa) pratiche di convivenza innovative basate su un modello di accoglienza che si nutre di pochi, essenziali, ingredienti: la microospitalità diffusa e il forte coinvolgimento del tessuto socioculturale e produttivo del territorio. Purtroppo, questo modello virtuoso si è affermato negli anni in maniera lenta e disomogenea4, cedendo così il passo al sistema dell’accoglienza straordinaria che, nato per avere funzione accessoria e transitoria, è diventato di fatto predominante5. “ È con i sogni di chi parte e di chi lo sa accogliere che si fanno i mondi nuovi. (da «Benvenuti. Rapporto sull’accoglienza diffusa in Italia 2020») © Simona Carnino 28 © Simona Carnino
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