Missioni Consolata - Luglio 2023

LUGLIO 2023 | MC | o 43 luce e con quella l’acqua ai piani alti. Così alcuni venivano a mendicare all’al-Fanar, dove il tuttofare Mohamed detto «Karaba» (elettricità) riusciva a gestire un approvvigionamento saltuario idrico ed elettrico grazie al generatore. Quando il letto nelle nostre stanze si scuoteva troppo, come una culla impazzita, scendevamo chi nel rifugio sottoterra chi nell’atrio a tenere compagnia a forza di tè nero a Mohamed e a Cocco, scimmietta portata lì chissà da dove e amica solo sua. Il personale dell’albergo non andava più a casa per non rischiare troppo. Era diventata una famiglia. Abu Ali, cameriere e cuoco, aveva perso il figlio nella guerra con l’Iran. Quando, ben presto, per la vegetariana della situazione erano rimasti solo pane e marmellata di datteri, lui premuroso mi garantiva di soppiatto qualche ortaggio, qualche frutto. Paura? No. Come in altre (inutili) delegazioni di pace, prima in Afghanistan e in Serbia, e anni dopo in Libia, si sviluppa la fatalistica sensazione che non ti toccherà. Ma c’era il dolore per chi moriva, veniva ferito, perdeva casa e ogni cosa. Civili e militari. Firos, che era stato soldato, ci diceva: «I militari sono nel mirino. Se si salvano è solo per miracolo». Non posso dimenticare l’immagine, in un ospedale di Hilla raggiunto nella seconda metà di aprile, di un soldato ustionato, avvolto completamente nelle bende. «Non sappiamo come chiamare il centro ustioni a Baghdad, i telefoni non funzionano», dicevano sconsolati i medici. Al ritorno nella capitale mi precipitai a segnalare l’urgenza, molto probabilmente senza speranza. Tutto è così in guerra. Appeso a un filo. «La guerra non ci sarà» Nessuno dell’Iraq Peace Team si illudeva di poter fermare nemmeno un missile minore. L’interposizione e la deterrenza civile avrebbero richiesto decine di migliaia di persone dal mondo. Tariq, veterinario improvvisatosi tassista, ci aveva comunicato il suo stupore: «Quando alla tivù ho visto, settimane fa, tutte quelle manifestazioni in giro per il mondo, anche nei vostri paesi, mi sono detto no, la guerra non ci sarà, i governanti potrebbero temere per le prossime elezioni. Invece a quanto pare non vi hanno dato retta». I governi sanno che la maggioranza dei cittadini non nega il proprio voto a chi ha deciso di fare le guerre, finché sono fatte a casa di altri popoli. Allora, cosa riuscivamo a fare? Andavamo a vedere i feriti negli ospedali e i bambini nell’orfanotrofio, custoditi dal personale che non andava più a casa e nutriti dalle persone del quartiere. Parlavamo con gli iracheni, tanto. Cercavamo di capire se fosse possibile mettere insieme una conta delle vittime (almeno quelle civili) per future denunce internazionali. Ci recavamo, su segnalazione della Mezzaluna rossa, a vedere i crateri delle bombe finite per errore (ma finite comune) sui mercati o sulle case civili. Cercavamo di portare ai media del vicino mega-hotel appelli inutili o segnalazioni che credevamo d’impatto; come questa: «A Hilla sotto le bombe un uomo ha perso moglie e tutti i sei figli». A volte, con un altro gruppo, il Christian peace team, passavamo la notte nella capannetta dell’impianto idrico dell’ospedale al Mansour, dove l’ingegnere Leyla e il suo personale temevano il peggio in caso di bombardamento. Leggevamo l’Iraq Daily, pochi fogli miracolosi. Un giorno risultò stampato alla rovescia, stile Leonardo da Vinci. Vi si dava conto di notizie tremende, i civili colpiti da una qunbula (bomba), da un sarukh (missile), morti in una anfijor (esplosione). Lo stesso termine usato dagli sminatori afghani. Ma il Daily dava risalto anche a surreali news incoraggianti: un agricoltore che era riuscito ad abbattere un elicottero yankee nel Sud, la tempesta di sabbia rallentava - benedetta - le operazioni aeree dei nemici. Un giorno, era il 5 aprile, accorremmo in strada al suono di clacson e di un RIFLESSIONI SULLA GUERRA o Qui: un soldato Usa fa bere un prigioniero, nei sobborghi di Baghdad, agosto 2003. | Sotto: marcia della pace Perugia-Assisi 2011. Cartello solitario contro la guerra della Nato alla Libia. © Maxim Marmur /AFP

RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=