Missioni Consolata - Dicembre 2022

sforma da dentro, rendendolo pienamente se stesso. Per Mosè questo passaggio è la notte di Pasqua (Es 11-13). Quella notte, anche gli ebrei non possono più stare alla finestra a guardare, ma devono decidere da che parte stare. L’angelo del Signore passa di notte, di casa in casa, a reclamare i primogeniti, e solo chi si è esposto, segnando con il sangue di un agnello sacrificato gli stipiti della propria porta, verrà risparmiato. E poi si deve partire, con anziani e bambini, bestie e masserizie, inseguiti da un esercito con carri e cavalli, verso una fuga che non sembra promettere nulla. E quindi occorre fare il grande balzo, accettando di entrare nell’acqua del mare mentre si è inseguiti dai soldati. È il passaggio più trasparente nella sua dinamica simbolica, e quello forse più sconcertante anche per il nostro mondo. Giunge un tempo in cui la fiducia chiede il passo decisivo, quello che sembra addirittura negare ciò che promette. Al popolo ebraico viene chiesto di fidarsi di una parola che promette la vita e la libertà entrando dentro la morte (il Mar Rosso), attraversandola. Per i credenti di ogni tempo (e verrebbe addirittura da dire in ogni fede, persino laica) il passaggio del mar Rosso rimanda simbolicamente all’accettazione della sfida di una libertà che si realizza proprio legandosi in una consacrazione, in un legame di coppia, o in una scelta di vita che non ha molte alternative, ma che allo stesso tempo rende possibile il costruire davvero la propria libera scelta. E si entra nel mare, passando dall’altra parte, non in virtù di prove o dimostrazioni che ciò non sarà pericoloso, ma solo fidandosi delle parole di una promessa: che c’è una terra, ed è più avanti, anche se nulla ancora garantisce che esista davvero. Ma se ci si ferma, o si torna indietro alle cipolle d’Egitto, quella promessa svanirà. LA SECONDA PERSEVERANZA Abbiamo già fatto notare come le nostre sceneggiature filmiche della storia dell’Esodo tendano a fermarsi qui. La dinamica di lotta e liberazione, persino nella fiducia, è qualcosa di noto e comprensibile per la nostra cultura. Essa tende però a immaginarci finalmente liberi e vincitori solo quando l’esercito nemico è stato vinto. Il racconto dell’Esodo, invece, ci porta più in là. Un cammino di fiducia cresce, scelta dopo scelta, fino ad arrivare a quella più grande, in qualche modo definitiva: una volta passato il mare, si potrà rimpiangere l’Egitto, come gli ebrei faranno, ma non si potrà più tornare indietro. Ma la storia non è finita. Continua e, anzi, bisognerebbe dire che narra una fase nuova, fatta di cammino nel deserto, di affidamento giorno dopo giorno, nel quale bisogna raccogliere la manna solo per quel tanto che serve a consumarne fino al tramonto (Es 16). È vero, mangiare dello stesso cibo tutti i giorni per quaranta anni può indurre a pensare che di certo ci sarà anche domani, ma in realtà non ne esiste nessuna garanzia. E conservare la manna, per avere un minimo di sicurezza del domani, significa trovarla imputridita al mattino dopo. Si sta parlando, in fondo, del nostro nutrimento costante, nutrimento di relazioni, di fiducia spirituale, quello che anche Gesù nel Padre nostro suggerirà di invocare come «quotidiano». Perché nelle relazioni, nella fiducia, nella vita, non esistono dispense o congelatori, c’è soltanto il cammino passo dopo passo, giorno dopo giorno nella continuità. Anche con Dio. LIBERTÀ È SERVIZIO Poco dopo aver passato il mare per approdare alla libertà, e prima dei lunghi anni di marcia nel deserto, ecco che quella libertà è chiamata a farsi servizio per diventare autentica e piena (Es 19). Il nostro tempo culturale, che, come tutte le culture, presenta molti pregi e qualche difetto, esalta in ogni modo la liUn cammino di libertà bertà. Il che è buono, salvo declinarla a volte come libertà anche di capriccio, di disfare tutto e ripartire sempre da capo. Il libro dell’Esodo ci ricorda che uno stile di questo tipo non costruisce umanità. Dio, che conosce l’uomo, non pretende un’adesione immediata da subito. Ma dopo mesi passati insieme, dopo aver preso chiaramente le parti del suo popolo con le piaghe inflitte agli Egiziani, avergli fatto passare il mare, averlo dissetato e nutrito nel deserto, gli chiede se vuole impegnarsi in una relazione definitiva. Questa, indubbiamente, sarà anche servizio, sarà sottomettersi a un legame che non permette più di mantenersi pienamente liberi. Ma è il solo modo di costruirsi, di essere autenticamente umani, di diventare una nazione «messa da parte» per Dio, la pienezza di chi fa dialogare il mondo divino e quello umano (Es 19,6). Si tratterà di un servizio da accogliere come dono dall’alto (Es 20), ma anche da rifare costantemente proprio (Es 34,1-4), resistendo alla tentazione di plasmarsi un Dio più prevedibile e appropriabile, che può essere chiuso in una stanza e considerato «mio» (questo, in fondo, è il vitello d’oro: Es 32). Il Dio d’Israele, invece, è un Dio vivo, che non sopporta su di sé una definizione, ma si fa sempre trovare come una presenza mai del tutto prevedibile, eppure affidabile (Es 3,14). Fiducia da far crescere affidamento dopo affidamento, con dedizione profonda e totale, fedeltà nel quotidiano (Es 25-31; 35-39), così da poter sperare quella terra promessa che «c’è, ed è avanti. Ciò non significa che la storia abbia senso, probabilmente non ce l’ha, ma (è questo il paradosso del credente) le verrà dato» (così scrive Paolo De Benedetti, che abbiamo già citato nel numero di ottobre 2021). Fidiamoci, un senso a questa storia Dio lo darà. Angelo Fracchia (Esodo 20 - fine) 34 dicembre 2022 MC

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