Missioni Consolata - Marzo 2022

tribuirebbe alla produzione globale per 2.400 miliardi di dollari, impiegherebbe - considerando tutta la catena del valore - 300 milioni di persone di cui molte donne, sarebbe responsabile del 2-8% delle emissioni di gas serra del pianeta e del 9% delle microplastiche disperse nell’oceano e consumerebbe 215mila miliardi di litri di acqua all’anno. DATI MENO CLAMOROSI MA PIÙ ATTENDIBILI Un valore fra 2.250 e 2.500 miliardi di dollari quanto al giro d’affari sembra mettere d’accordo diverse fonti. Per agli altri dati, lo scorso gennaio Wicker ha cercato sul suo blog di fornire almeno un’analisi della credibilità delle diverse stime che collocano il contributo alle emissioni globali del comparto moda nell’intervallo fra il 2% e l’8% riportato dalle Nazioni Unite@. Con tutte le cautele del caso, la giornalista descrive il rapporto del 2017 Pulse of the fashion industry prodotto dai consulenti del Boston consulting group (Bcg)@ in collaborazione con il forum danese Global fashion agenda come la più approfondita analisi realizzata finora, nella quale la quota di emissioni generate da questo settore sono quantificate nel 4,8% per l’anno 2015. Quanto all’acqua, lo stesso rapporto parla di 79 miliardi di metri cubi consumati, l’equivalente di 32 milioni di piscine olimpioniche, dato ripreso anche dal Servizio di ricerca del Parlamento europeo, che aggiunge un’ulteriore informazione@: per produrre una T-shirt occorrono 2.700 litri d’acqua potabile, quantità sufficiente a soddisfare il fabbisogno di una persona per due anni e mezzo. Settantanove miliardi di metri cubi è una quantità enorme, spiega Wicker, più di quella usata per produrre elettricità, ma è lo 0,87% dei 9.087 miliardi di metri cubi usati complessivamente ogni anno, non il 20% come alcune fonti riportano. L’idea che la moda sarebbe la più inquinante industria dopo il petrolio, chiarisce inoltre Wicker, viene invece dall’improprio utilizzo di un’affermazione di una studiosa, Linda Greer, riferita peraltro all’inquinamento dell’acqua - e non dell’ambiente nel suo complesso - in una specifica provincia della Cina sulla quale stava effettuando degli studi. In quella zona, aveva rilevato Greer, la seconda industria che inquina di più l’acqua dopo l’industria chimica (e non quella petrolifera) era in effetti quella dell’abbigliamento. Questa sua affermazione circoscritta è stata poi generalizzata, ed è rimbalzata sui media senza mai essere controllata da chi la ripubblicava. Nella Cop26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si è svolta lo scorso autunno a Glasgow, «nessuno ha menzionato la falsa statistica, ora screditata, ma un tempo molto diffusa, che “la moda è la seconda industria più inquinante del pianeta”. Tutti hanno finalmente concordato che è una delle peggiori, e questo è già abbastanza grave», scriveva@ a novembre 2021 la giornalista della sezione moda del New York Times, Vanessa Friedman. I PROBLEMI REALI Sempre secondo il report Pulse of the fashion industry 2017, è da attribuire all’industria dell’abbigliamento la produzione di 92 milioni di tonellate di rifiuti solidi all’anno, pari al 4% del totale mondiale. Secondo le proiezioni del rapporto, le tonnellate di tessili che elimineremo saranno 148 milioni l’anno nel 2030: ogni secondo, stima la Ellen MacArthur foundation, un camion di spazzatura pieno di vestiti finisce in una discarica@. Come spiegava Wicker su Newsweek nel 2016, le fibre sintetiche sono derivati dei combustibili fossili e hanno tempi di decadimento di centinaia, se non migliaia di anni@. Quanto invece alle fibre naturali come cotone, lino e seta, o semisintetiche create da cellulosa di origine vegetale, come rayon, tencel e modal, una volta gettate in una discarica si degradano ma producendo metano. Non possono essere compostate perché, per diventare indumenti, vengono sbiancate, tinte, stampate, e le sostanze chimiche impiegate in questi processi possono poi passare dal tessuto alle falde acquifere o, in caso di incenerimento, trasformarsi in fumi tossici liberati nell’aria. Nel gennaio 2022, Lucia Capuzzi raccontava su Avvenire della enorme discarica illegale nel deserto di Atacama, in Cile, e di come la vicina cittadina di Alto Hospicio venga ciclicamente incooperando 64 marzo 2022 MC La discarica illegale nel deserto di Atacama, in Cile - © MARTIN BERNETTI / AFP

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