Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2022

46 gennaio-febbraio 2022 ssier A sinistra: l’infografica mostra le emissioni procapite di CO2 nel 2019; la Cina, prima per emissioni assolute, scende al settimo posto per emissioni procapite. A destra: l’infografica evidenzia la distribuzione della popolazione mondiale per impronta di carbonio (ton nellate procapite per anno): il 10% ha un’impronta su periore a quella sostenibile (2,5t/anno; nel grafico, l’impronta di colore grigio) di ben dieci volte, il 40% di due volte. Il restante 50% è sotto della metà. Lo scorso novembre, per la 26esima Conferenza delle parti (Cop26), sono arrivate a Glasgow circa 30mila persone. Inquieta scoprire che il gruppo più numeroso - 503 delegati - è stato quello inviato dalle imprese produttrici di carbone, petrolio, gas, ovvero i combustibili fossili che sono all’origine della catastrofe climatica. Che fossero lì per convincere i governi che non c’è bisogno di una transizione ecologica troppo stringente? Da Rio a Glasgow La Cop26 è stata l’ultima tappa di un viaggio iniziato nel 1992, quando tutte le nazioni del mondo si incontrarono a Rio de Janeiro, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per discutere di cambiamenti climatici. Durante la conferenza tutti riconobbero la necessità di ridurre le emissioni di anidride carbonica e degli altri gas a effetto serra, ma nessuno accettò di assumere impegni concreti. Come soluzione venne firmato un accordo che conteneva l’impegno a proseguire il confronto tramite apposite conferenze organizzate SULLA STRADA SBAGLIATA Una sfida impossibile (senza equità e solidarietà) Le conferenze sul clima non porteranno mai a risultati concreti se non si cambia il modello economico e non si inizia a prendere in esame la questione della giustizia. di FRANCESCO GESUALDI annualmente. L’accordo assunse il nome di United nation framework convention on climate change (Unfcc), mentre le conferenze si sarebbero chiamate Conferenze delle parti, in sigla Cop, seguite dal numero dell’appuntamento. Fra le conferenze più importanti sono da segnalare la Cop3, che si tenne a Kyoto (Giappone) nel 1997, e la Cop21, che si tenne a Parigi nel 2015. La prima produsse il protocollo di Kyoto che prevedeva l’impegno a ridurre le emissioni di CO2 del 5,2% rispetto al 1990. La seconda, invece, produsse l’accordo di Parigi che prevede l’impegno a limitare le emissioni di gas serra nella misura necessaria a impedire alla temperatura terrestre di crescere oltre 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. L’accordo di Parigi venne firmato da 197 nazioni più l’Unione europea: praticamente tutti i paesi del mondo. Esso costituisce un classico esempio di soft law, di tentativo, cioè, di ottenere dei risultati non tramite regole vincolanti e punitive, ma tramite meccanismi di persuasione morale e politica. In effetti, al di là dell’obiettivo generale, l’accordo di Parigi non impone ai singoli stati adempimenti obbligatori. Ogni paese che ratifica l’accordo è tenuto a darsi degli obiettivi di riduzione delle emissioni, ma quantitativi e tempistica sono definiti in maniera volontaria. È previsto un meccanismo per forzare i paesi a stabilire i propri obiettivi, ma non sono previste conseguenze qualora gli obiettivi dichiarati non vengano soddisfatti: l’accordo prevede solo un sistema «name and shame», la compilazione di una sorta di lista «della vergogna» in cui inserire i paesi inadempienti. Ad oggi, 192 paesi hanno presentato i loro primi obiettivi nazionali di riduzione di gas a effetto serra (in sigla Ndc, Nationally determined contri- © Centro nuovo modello di svliluppo

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