Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2022

responsabile del riscaldamento globale (global warming): l’aumento delle emissioni e della concentrazione nell’atmosfera dei cosiddetti «gas serra» (in primis, anidride carbonica, ma anche metano, protossido di azoto, ozono, vapore acqueo e fluorurati) come conseguenza delle attività umane. Per dirla in maniera sintetica: «Più si produce, più gas serra vengono emessi» (Lessico e nuvole, Università di Torino, 2019). Le responsabilità dell’uomo sono così chiare che si è coniato il termine «antropocene» per indicare l’epoca geologica attuale in cui l’ambiente terrestre è modificato dall’azione umana. Tutti (quasi tutti) gli scienziati concordano sul fatto che il limite da non oltrepassare sia un aumento di 1,5°C ripetto ai livelli preindustrali, come peraltro già previsto dagli accordi di Parigi del 2015. Per raggiungere questo obiettivo occorre diminuire le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 e azzerarle (la cosiddetta «neutralità carbonica») entro il 2050, mete attualmente molto distanti. Come fare, dunque? L’unica soluzione percorribile è la cosiddetta «decarbonizzazione dell’economia», ovvero una transizione energetica che preveda la progressiva riduzione dell’uso dei combustibili fossili (petrolio, carbone, gas naturale), l’aumento delle energie rinnovabili (da quella idroelettrica a quella solare, con alcuni che includono nel novero anche l’energia nucleare), il risparmio energetico, uno sviluppo più sostenibile. Visti gli obiettivi, si tratta di una sfida tremendamente complessa perché comporta il cambio del paradigma economico oggi dominante, che prevede una crescita infinita in un mondo finito. Misure da prendere, queste, a livello di sistema (governi, multinazionali, organismi internazionali), ma anche a livello dei singoli (per non «depersonalizzare» la questione climatica). Il problema è: quali paesi possono intraprendere questa nuova strada? Come adottare misure efficaci, rapide e vincolanti, ma non punitive, considerando anche l’aspetto della giustizia climatica? Questa deve prendere in esame non soltanto le emissioni attuali, ma anche quelle storiche (ovvero quelle che hanno prodotto un «debito ecologico» dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri). LA COP26 E UN ACCORDO FALLIMENTARE Glasgow e la prevalenza del «bla bla bla» Dopo 26 conferenze, paesi ricchi, paesi emergenti e paesi poveri procedono ancora in ordine sparso. Se a parole tutti sono consapevoli dell’emergenza, l’accordo sottoscritto a Glasgow è molto deludente lasciando il mondo in balia del clima e degli interessi particolari dei singoli paesi e delle multinazionali. Tra il 1700 e il 1800, il carbone è stato il principale combustibile del motore a vapore e della rivoluzione industriale. Glasgow è stata un importante centro di questa rivoluzione e un polo carbonifero fino a metà del secolo scorso. Lo scorso novembre, la città scozzese ha ospitato la ventiseiesima «Conferenza delle parti» (in sigla, Cop26) sui cambiamenti climatici, a trent’anni dal Summit della Terra di Rio de Janeiro (1992). Quello di Glasgow è stato un appuntamento sul quale si sono profuse valanghe di aggettivi e superlativi, ma che si è trasformato - come da più parti paventato - in un fallimento le cui dimensioni e conseguenze sono tutte da valutare. La speranza di tutti (quasi tutti) è di essere smentiti dai fatti, ma - al momento - il tanto criticato «bla bla bla» di Greta Thunberg è stato una sintesi perfetta della lontananza tra la realtà dell’emergenza climatica e la politica. L’antropocene e la giustizia climatica Chiunque può rendersi conto che il mutamento del clima fa già parte della vita quotidiana, ovunque nel mondo: aumento delle temperature (in media, più 1,1°C rispetto ai livelli preindustriali, secondo il rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change, Ipcc), ritiro dei ghiacciai montani e polari, aumento dei fenomeni estremi (siccità, alluvioni, cicloni tropicali, incendi, frane), deterioramento della salute di oceani e mari (riscaldamento, acidificazione, innalzamento), come racconta anche il rapporto «State of the Climate 2021» (31 ottobre) dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo). Da tempo, la scienza ha individuato la causa e il di PAOLO MOIOLA ssier 36 gennaio-febbraio 2022

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