Missioni Consolata - Ottobre 2015

L’EVOLUZIONE DEL DUBBIO YANOMAMI ENAPËPË Primitivi, selvaggi, feroci. Un tempo erano questi gli aggettivi affibbiati agli Yanomami (e ai popoli indigeni in generale). Poi le cose sono un po’ cambiate. Ma i problemi sono rimasti. Oggi per gli indios il pericolo maggiore non è la sopravvivenza fisica, ma quella culturale. DI P AOLO M OIOLA B oa Vista. Nella filiale del Banco do Brasil sono presenti molte persone. La banca ha soltanto sportelli automatici. Dopo aver prelevato il denaro, veniamo avvicinati da due uomini dalle fattezze indigene. Ci dicono di averci visti nella sede di Hutukara, l’organizzazione yanomami dove in effetti il giorno prima eravamo stati per incontrare il leader Davi Kopenawa 1 . I due indigeni ci chiedono se possiamo aiutarli con la loro tessera bancomat, del cui utilizzo non sono esperti. Entriamo nel conto che però risulta vuoto. «I soldi non sono ancora arrivati», sentenzia uno di loro. Ci salutiamo. Come ci spiegherà in seguito Carlo Zacquini, l’uso del bancomat si è (relativamente) diffuso tra gli Ya- nomami perché un piccolo numero di loro ha un impiego pubblico. Soprattutto come insegnante o come agente di sanità indigena. Nella mente si fanno spazio tanti dubbi. Il primo, forse banale ma crediamo lecito, recita così: nell’incontro tra indios e bianchi ci sono perdenti e vincitori? La storia, passata e attuale, risponde che sono gli indios ad avere perso. Spesso la vita, oggi probabilmente stili esistenziali e cultura. «Perché disturbare gli indios?», si chiedeva nel lon- tano 1966 mons. Servilio Conti, allora vescovo di Roraima 2 . «La domanda è lecita - proseguiva il pre- lato - e ce la siamo proposta anche noi. Ovviamente verrebbe voglia di ragionare così: se gli indios hanno continuato a vivere indisturbati e felici nel loro regno verde per millenni, perché andare a dis- turbarli col rischio di infrangere irreparabilmente quell’equilibrio che li ha tenuti in vita fino ai nostri giorni? Perché ostinarsi a penetrare in un ambiente senza essere richiesti, non solo, ma anche col peri- colo di rovinare tutto?». Felicità-infelicità, sviluppo-arretratezza, civilizzato- selvaggio sono concetti in apparenza facilmente de- finibili, ma in realtà spesso relativi. «Vado avanti volentieri, pensando all’infelicità di questo popolo, il cui cammino verso la fede e la ci- viltà è tanto difficile e pieno di incertezze», scriveva Silvano Sabatini nel 1967 a proposito degli Yano- mami del fiume Apiaú 3 (conosciuti anche come Ni- nam o Yanam). Già pochi anni dopo il pensiero del missionario però cambia: dà la parola a Gabriel Vi- riato Raposo, un indio makuxi, e ne sposa le ra- gioni, molto critiche verso il bianco conquistatore 4 . Nei suoi ultimi lavori, Sabatini parla del suo «per- corso di trasformazione interiore» 5 : «Partito per © AfMC OTTOBRE 2015 MC 31 DOSSIER MC L’INCONTRO

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