Missioni Consolata - Giugno 2015

amministrazione della giustizia, il diritto cioè dei citta- dini di verificare il funzionamento della macchina giu- diziaria. Il giusto equilibrio fra questi interessi non è fa- cile da trovare, ma va cercato senza sacrificarne nes- suno, essendo tutti di rilevanza costituzionale. L’informazione e le intercettazioni In questi ultimi anni l’informazione ha avuto un ruolo decisivo per far conoscere e, quindi, per contrastare meglio alcuni gravi scandali avvenuti nel nostro paese. Basta ricordare le cronache cosiddette di Tangento- poli, Mafiopoli, Bancopoli, Furbettopoli, Calciopoli, Val- lettopoli e via seguitando. O elencare i principali «scan- dali finanziari» italiani: dalla vicenda Sindona, ai fondi neri di grandi imprese italiane (petrolieri e non solo), ai casi Eni-Petromin, Banco Ambrosiano e Ior, alle trame della P2, ai retroscena del lodo Mondadori, all’Enimont madre di tutte le tangenti, al crollo di Ferruzzi e Mon- tedison, alle traversie del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia, fino ai crack Cirio e Parmalat e alle scalate bancarie, per arrivare ai giorni nostri con Expo, Mose e Mafia capitale. Se non ci fosse stata una informazione attenta (basata anche su un’ ampia divulgazione delle intercettazioni), come per fortuna invece c’è stata, la qualità della no- stra democrazia avrebbe potuto subire delle ripercus- sioni negative. Dunque, il ruolo che l’informazione ha avuto in questi casi deve costituire un punto di par- tenza. E se questo ruolo viene cancellato o grave- mente impedito, sono guai. Guai irreparabili, se del processo - mentre è in corso - non si potesse raccon- tare più nulla (o quasi). E se, per raccontare finalmente qualcosa, si dovesse aspettare la fine del processo stesso, una fine che a causa del pessimo funziona- mento della nostra giustizia arriva (se non interviene la prescrizione che tutto cancella, cfr. MC 4/2015 ) con ri- tardi biblici. Premesso ciò, si comprendono le preoccu- pazioni che solleva l’intenzione proclamata dal presi- dente del Consiglio (per altro senza che sia stato an- cora presentato un qualche progetto scritto) circa la riforma delle intercettazioni, posto che tra gli orienta- menti che si fanno trapelare ve ne sarebbero di drasti- camente ispirati alla riduzione della pubblicabilità delle intercettazioni, con gravi pene (persino il carcere) per i giornalisti e gli editori che non rispettassero il divieto. Accade spesso che si registrino conversazioni non rile- vanti per l’accertamento della verità ovvero relative a fatti e soggetti del tutto estranei al processo. In linea di principio si è di solito d’accordo nel ritenere che tali re- gistrazioni non devono essere utilizzabili all’interno del processo e neppure pubblicate all’esterno. Resta però il problema di definire la «rilevanza» delle registrazioni tutte le volte che essa assuma contorni sfumati e non sia possibile ancorarla a parametri univoci. Problema che si pone soprattutto in presenza di «reti relazionali» articolate che coinvolgano più soggetti (con posizioni diversificate, anche penalmente irrilevanti), quando questa rete nel suo complesso possa incidere sulla prova del reato indagato alla luce della sua tipologia (ad esempio, mafia e corruzione, che tipicamente si nutrono di un intreccio di relazioni ricercate e stabilite allo scopo di apparire in un certo modo, così da facili- tare il giro d’affari e l’accettazione nei salotti buoni). Sciolto questo nodo, fissati i paletti necessari per deli- mitare il perimetro delle conversazioni intercettate non utilizzabili nel processo (in quanto relative a fatti o sog- getti estranei), rimane soltanto il materiale che è utile, ne- cessario per l’accertamento della verità. All’interno di que- sto perimetro, comprimere più di tanto la libertà di infor- mazione (costituzionalmente garantita) mi sembra perico- loso, perché rischieremmo di non conoscere tempestiva- mente fatti gravi che i cittadini hanno il diritto di cono- scere. Di più: si impedirebbe anche alle autorità di con- trollo e al potere politico che voglia ben funzionare di in- tervenire per frenare o raddrizzare le storture segnalate. In altre parole, comprimere oltre i limiti suddetti il di- ritto/dovere di informazione rischia di far prevalere l’«Ita- lia delle impunità» sull’«Italia delle regole». Con pregiudi- zio diretto per i cittadini onesti. Grande fratello e sperpero di denaro? Si è soliti dire (e a forza di ripeterlo si finisce per crederci) che la magistratura italiana avrebbe creato un «grande fratello» che tiene sotto controllo (o scacco) milioni di cit- tadini, sperperando una quantità incredibile di denaro pubblico. I dati della Procura di Torino parlano un linguag- gio tutt’affatto diverso. Le rilevazioni statistiche eviden- ziano che il numero delle indagini (fascicoli) in cui è stato utilizzato lo strumento delle intercettazioni telefoniche è in media di circa 300 all’anno, a fronte di un introito me- dio dell’intero ufficio di Procura di 170.000 (noti e ignoti) fascicoli all’anno. In percentuale, di tutte le indagini svolte dalla Procura di Torino, quelle condotte anche attraverso l’utilizzazione di intercettazioni telefoniche restano sotto lo 0,5%. Per quanto riguarda la spesa, dal 2003 essa ha subito un decremento costante. È giusto tuttavia continuare a pre- tendere un certo self restraint dei magistrati sul numero delle intercettazioni, ma non è certo colpa dei magistrati se il crimine (specie quello organizzato) ha la diffusione che ha nel nostro paese, e se, per fronteggiarlo, gli stru- menti principe sono i collaboratori di giustizia e le intercet- tazioni. Infine, va ricordato che, in Italia, tutte le intercettazioni sono disposte e si svolgono sotto il controllo della magi- stratura. In altri paesi quelle disposte dalla magistratura sono in percentuale ridottissima rispetto ad altri organismi pubblici (si pensi alla statunitense National Security Agency e al caso Edward Snowden), mentre si sta esten- dendo enormemente la raccolta massiva di intercettazioni telefoniche e di dati internet soprattutto sul versante della lotta al terrorismo internazionale. Ora, non v’è dubbio che il terrorismo vada combattuto senza riserve, ma la rispo- sta non può essere soltanto «militare». La sicurezza è un bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori in- telligenze e dell’impegno più intenso). Un tema decisivo, che tuttavia non può essere esclusivo. Altrimenti c’è il ri- schio che i diritti diventino ostaggio della sicurezza. Se si negano aiuti (effettivi, seri) all’istruzione, alla sanità, allo sviluppo umano, ecco che finiamo per avvitarci dentro lo- giche contorte e inefficaci. Un circolo vizioso che occorre rompere. Anche perché esso rischia di preparare e intro- durre nuovi poteri. Magari così assoluti da costituire - al di là delle intenzioni - un pericolo per le libertà e la democra- zia, nel momento stesso in cui si avviano azioni finalizzate a tutelare proprio libertà e democrazia. Gian Carlo Caselli 34 MC GIUGNO 2015 Della legalità

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