Missioni Consolata - Giugno 2008

68 MC GIUGNO 2008 V olevo scrivere una tesi di laurea che riguardasse la ma- laria. Ero già stata in Africa due volte, la prima come tu- rista in Kenya e Tanzania, la seconda come studentessa di medicina in un dispensario «di brousse » della Repubblica Centroafricana. Ed ero sicura che ci sarei tornata. Per questo, tra tutti gli argomenti che il corso di laurea ci propone, io ero particolarmente affascinata dalla patologia tropicale. La pros- sima volta sarei tornata in Africa come me- dico, oltre che come amante di quella ter- ra meravigliosa. Era il 1998. L’Africa era per me una realtà appena sfiorata, un mondo pieno di fasci- no ancora tutto da scoprire; la malaria, una serie di nozioni apprese su libri e riviste. Ne avevo studiato l’epidemiologia, la patoge- nesi, le diverse forme cliniche, le terapie. Infine avevo raccolto la documentazione di tutti gli studi clinici di sperimentazione del vaccino SPf66 contro il Plasmodium falci- parum , il più diffuso e pericoloso dei quat- tro plasmodi che causano la malaria; su queste esperienze cliniche avevo fatto uno studio di meta-analisi che era diventato la mia tesi. A dire la verità non ne ero molto soddi- sfatta, forse perché era una cosa troppo astratta, troppo lontana dall’Africa che avevo conosciuto, o forse semplicemente perché la conclusione era che i risultati di questa sperimentazione erano molto delu- denti. Dopo la laurea, durante un corso di Medicina tropicale in Belgio, ho imparato a riconoscere i plasmodi malarici al mi- croscopio, su strisci di sangue periferico e su «goccia spessa», un metodo di concen- trazione largamente utilizzato «sul cam- po» perché rende più veloce la diagnosi. I vetrini su cui studiavamo provenivano da diversi paesi dell’Africa, Asia e America Latina. Dopo tanta teoria mi stavo progressiva- mente avvicinando al paziente, attraverso quei campioni di sangue in cui potevo osservare direttamente la presenza e le conseguenze dell’infezione malarica. Iniziata la scuola di spe- cializzazione in Medicina tropicale in Italia, ho avuto l’occasione di assistere alcuni pazienti affetti da malaria, di ritorno da paesi endemici. Ma quando sono arrivata in Congo la malaria aveva tutta un’altra faccia. L’occasione di un’esperienza lavorativa in un piccolo ospe- dale di Pointe Noire, sulla costa del Congo Brazzaville, mi si era presentata alla fine del terzo anno di specializzazione. So- no arrivata a Pointe Noire durante il caldo aprile congolese, alla fine della stagione delle piogge. Pointe Noire è una città petrolifera, eppure le uniche strade asfaltate sono quelle del centro, dove abitano i francesi e gli italiani che lavorano nel- le società estrattive; tutte le altre strade della città sono ster- rate e, in questa stagione, si trasformano in rivi d’acqua tor- bida dove giocano i bambini, dove passano e spesso riman- La seconda classificata al nostro «Premio Carlo Urbani», racconta la sua esperienza in un ospedale di Brazzaville (Congo). E quella in Cina. I DIVERSI VOLTI DELLA MALARIA gono impantanati i più svariati e sgangherati veicoli che at- traversano la città. È qui che la sera verso le sei e mezza, ora del crepuscolo equatoriale, si comincia a sentire il ronzio delle zanzare. So- no proprio le femmine delle zanzare anopheles i veicoli della malaria. Rapidamente popolano la notte e non è difficile per loro trovare un ospite, poiché la vita in Africa, si svolge pre- valentemente all’aperto, anche di notte: le donne cucinano all’aperto, i bambini gioca- no all’aperto, gli anziani cantano e raccon- tano antiche storie all’aperto. Solo una pic- cola percentuale di famiglie possiede una zanzariera e un’ancor minore quota la impre- gna periodicamente d’insetticida al Cim ( Centre d’imprégnation des moustiqueres ) si- tuato sull’Avenue du Général De Gaulle, la via principale della città. Così ogni notte il ciclo del parassita si perpetua. E sulle carte geo- grafiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’Africa si colora di un rosso sempre più scuro. Ricordo benissimo la prima volta che sono entrata nell’ospedale dove avrei la- vorato i successivi due mesi; dando una ra- pida occhiata all’affollata sala d’attesa, ho capito in un attimo che avrei visto e impa- rato molte più cose di quelle scritte sui libri di medicina. Uno dopo l’altro i pazienti si susseguivano nella spoglia stanzetta adibita ad ambulato- rio, dove un vecchio ventilatore, nei fortu- nati giorni in cui c’era energia elettrica, muoveva un’aria pesante e umida. La mag- gior parte dei pazienti si presentava per feb- bre, diarrea, marcata astenia, cefalea: tutti sintomi che possono essere espressione d’infezione malarica, così come di un’infinità di altre patologie. I n un’area a così alta endemia il quadro clinico della malaria è estremamente aspecifico. Fortunatamente però la dia- gnosi microscopica è semplice e poco costosa: bastano pochi coloranti e un qualsiasi microscopio ottico. Quando manca la corrente si può usare una torcia a pile oppure, se manca an- che quella, uno specchietto che sfrutti la luce solare. Altre in- dagini non sarebbero effettuabili e d’altronde non sono nean- che necessarie. Perché il trofozoita, la forma ematica del pla- smodio, si vede facilmente: sta all’interno dei globuli rossi dei quali provoca la lisi, le alterazioni di forma ed elasticità re- sponsabili di tutta la sintomatologia sistemica. Così, data l’estrema diffusione dell’infezione e data la facilità diagnosti- ca, a quasi tutti i pazienti che potevano permetterselo, veni- va fatto un prelievo per la ricerca del plasmodio. La percentuale di positività era impressionante: più del 90%. In tantissimi casi la carica parassitaria era molto eleva- ta; in un campo microscopico era possibile vedere decine di trofozoiti, dando al vetrino l’aspetto che in gergo viene defi- nito «a cielo stellato». E impressionante era il numero di bam- La dottoressa Chiara Montaldo, autrice di questo articolo, con cui ha partecipato al «Premio giornalistico dottor Carlo Urbani» (2004), risultando tra i primi due vincitori.

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