Missioni Consolata - Maggio 2008

con l’intento di avvolgerli, proteg- gerli ed essere fonte di calore. A questa idea iniziale si rifanno le cure palliative. Se non servono a guarire nel senso stretto del termine, servono a prendersi cura del pazien- te sino alla fine». Ma in termini tecnici come ci si prende cura del paziente? «L’obietti- vo è ridurre al massimo grado la sof- ferenza della persona malata, con un buon controllo dei sintomi.Alleviare dal dolore la persona permette non solo di intervenire sulla corporeità dell’individuoma di restituirgli quel- la dignità umana, indispensabile per migliorare la qualità del tempo che gli rimane da vivere». Se il controllo di una complessa sintomatologia alla fine della vita è importante, inscindibile da questo è l’approccio relazionale e umano che il «palliativista» non può non avere. «Alla base del nostro lavoro c’è la consapevolezza di varcare l’uscio di case segnate dal dolore. L’attività tecnica del controllo dei sintomi si lega indissolubilmente al rapporto relazionale con il malato e con l’inte- ra famiglia.Nell’assistenza domicilia- re il ruolo della mini équipe (medico e infermiere) è quello di affrontare i sintomi fisici dei pazienti ed emotivi dei parenti, con un’autentica condi- visione del malessere psicologico». Da cosa nasce la sua scelta di lavo- rare con la terminalità? Ha iniziato dopo la laurea o è una decisione re- cente? «Sono specializzato in chirur- gia e ho lavorato per 15 anni come chirurgo al San Giovanni Vecchio e all’ospedale Valdese di Torino.Con il passare degli anni ho iniziato ad av- S iamo esseri a termine.Ma non facciamo che dimenticarcene. La «rimozione» non guarda in faccia nessuno, si estende a tutte le fasce sociali.Non è però un processo così immediato: esclude il non fare, alimenta l’azione, annulla il pensiero consapevole, annienta la profondità. Siamo specchio di una società in cui l’idea dell’uomo infallibile detiene una supremazia assoluta, sotto tutti gli aspetti, anche quello della salute. La malattia va negata, la sofferen- za taciuta, la morte cancellata. In questa prospettiva parlare di ferite, nel corpo e nello spirito, esige un cambio di paradigma. Lo facciamo lasciando la parola a chi, per scelta, ha deciso di vivere quotidianamente con i malati ter- minali . Di essere taumaturgo del corpo e dell’anima per chi la «termi- nalità» non può più far finta che non esista. CURE ...PALLIATIVE? «Il medico di cure palliative agisce laddove non ci sono più spazi per le terapie attive convenzionali e rivol- ge le sue cure a malati cosiddetti ter- minali, con un’aspettativa di vita mi- nore o uguale a 120 giorni».Così rac- conta Piergiacomo Rubatto, 46 anni, medico presso la Fondazione per l’assistenza e la ricerca oncologica (Faro) di Torino. E sfata un equivoco semantico, secondo il quale l’attri- buto palliativo identifica un inter- vento superfluo. «Anticamente il so- stantivo pallium indicava il mantello con cui i pellegrini si riparavano du- rante i loro viaggi presso i santuari, MISSIONI CONSOLATA MC MAGGIO 2008 49 Diagnosi nefasta e prognosi di vita breve. Le terapie cosiddette «attive» salutano il paziente. Si varca la soglia del quotidiano e si entra in una terra di confine. Anticamera tra vita e morte.Diamo voce a chi, stringendo un patto con il tempo che segna i passi dell’uomo, sceglie di rendere meno doloroso il trapasso. Con il sostegno alla terminalità, dove meta ultima non è la guarigione bensì una morte dignitosa.

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