Missioni Consolata - Settembre 2006

■ TOGO ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ 1---------------------------------------------------------------------------------------------------------- 30 km da Anfoin.Sono ospiti in questi giorni un missionario spagnolo molto simpatico e un veronese dal - l'aspetto triste e sofferente.Quest'ultimo mi pare critico nei confronti di un confratello molto conosciuto nel paese e stimato per la sua profonda conoscenza del Togo e della sua gente. È Roberto Pazzi, un missionario che ha fatto una scelta radicale:vivere da eremita nell'arida brousse, in una capanna di paglia come un afri- ' cano, contando solo sulle proprie forze e su ciò che produce la terra. Suor Luciana me lo farà conoscere, perché è a lui che le suore di Anfoin si confidano. Il terreno per il romitaggio è stato concesso dalla diocesi, che ne è proprietaria. Si arriva percorrendo una pista tra palme da olio e campi di manioca.Superata la fontana artesiana,ora a secco, prosegu iamo a , piedi lungo uno stretto sentiero e sostiamo davanti alla cappella di fango secco col tetto di paglia. li crocefisso è fatto con due bastoni di legno incrociati e legati. Siamo accolti da un'anziana suora, Marie Jeanne. Capo rasato, i piedi scalzi,vestita con un abito-grembiule a fiorellini ,mi indica il lusso della 20 ■ MC SETTEMBRE 2006 Padre Elio nella sede di Radio Speranza, la trasmittente da lui fondata. In Togo, come in tutta l'Africa, l'eucaristia èsempre una celebrazione di fede edi gioia. sua capanna: il pavimento di cemento.Poi con un sorriso invita suor Luciana, sua cara amica,a visite più frequenti dicendo: «Jamais trop loine la maison d'une amie» (mai troppo lontana la casa di un'amica), uno dei tanti proverbi di questa gente d'Africa,che ha una saggezza antica,impermeabile alle nostre critiche e giudizi affrettati. Suor Marie Jeanne ha lavorato per anni come infermiera in Togo; ma quando la sua congregazione ha lasciato il paese, ha scelto di restare, La cappella di padre «eremita» Roberto Pazzi. per condividere la scelta di padre Roberto. Non ha certo l'aspetto macilento e sofferente dell'eremita questo comboniano: il fisico robusto, non dimostra i suoi 70 anni; lo sguardo è vivo e sorridente. Mi riceve tra i libri e le carte del suo rifugio: una povera capanna di paglia, meta da anni di tanti visitatori. Lo lascio parlare, dopo 40 anni di vita africana,di cose da dire ne ha molte.Quando suor Luciana mi chiama,mi rendo conto che sono già passate due ore. . Cosa mi ha detto? Forse quello , che volevo sentirgli dire. li rispetto per il paese e la sua gente; la forza della terra e di antiche credenze; Dio creatore e le forze che interagiscono con gli uomini; il vudù come mezzo per awicinare il divino; la lotta tra il bene e il male; l'intervento dell'uomo bianco con i suoi pregiudizi;gli errori degli aiuti, che si inviano a fin di bene. Come si può adottare a distanza un bambino, che avrà scuola e libri, vestiti e sussidi? Egli altri del villaggio o della sua stessa famiglia? Bisogna ripensare i nostri interventi in Africa e mi sembra ch,e lo si stia già facendo. Padre Roberto arrivò in Africa 40 anni fa.Durante la Seconda guerra mondiale,da Milano la sua famiglia era sfollata nella campagna di Como, dove Roberto conobbe un padre comboniano e incominciò a sognare l'Africa.Dopo la consacrazione fu inviato missionario in Togo, allora paese modello che, dopo la fine del protettorato tedesco si era ridotto di dimensioni, mantenendo però una solida struttura. «Anche oggi, gli aiuti che arrivano dalla Germania sono i più intelligenti, mirati allo sviluppo e alla crescita del paese»spiega padre Roberto, che ha occhi che brillano e un sorriso giovane,aperto,con l'unico incisivo rimastogli in bocca.Scalzo, ha un piede bendato alla belle meglio, il segno violaceo di una contusione sotto il ginocchio. «Noi non possiamo capire l'africano, che non si aprirà mai a un occidentale»mi ripete padre Roberto. Rimane l'enigma e mi torna in mente una frase emblematica, letta su un recente numero di National Geographic: «Qualsiasi cosa tu abbia pensato dell'Africa, pensaci ancora» . ■

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