Missioni Consolata - Aprile 2006

MISSIONI CONSOLATA : curano d'altro che di far denaro e di andare dietro : a tutti i piaceri mondani». : All'opposto, rivaluta completamente le sue idee : iniziali sui locali, giungendo a rivelare che «in molti : punti sorpassano gli europei. Lo sanno anche loro : stessi, perciò odiano tutti gli stranieri. .. Sono veramente la prima nazione al mondo, solo manca loro il cristianesimo». Eppure, Giuseppe in Cina non ebbe vita facile: la rivolta dei Boxer nel 1900, la persecuzione cristiana, le malattie resero la sua opera di evangelizzazione, dura e pericolosa. Fino al 1908, anno in cui morì stroncato dal tifo a Taikia, dove fu sepolto, continuò a scrivere alla madre e agli amici nel suo italiano stentato o in tedesco, non dimenticando, però, la sua cultura natale: illadino. «Chi non è chiamato dal Signore non abbandoni la bella Badia», scrisse in uno dei tanti momenti di nostalgia, in cui ricordava con piacere i tre anni trascorsi come parroco a San Martino in Badia (1875-78) o la sua infanzia felice con i 12 fratelli all'ombra delle vette dolomitiche. Ed è forse proprio questo il miracolo di san Giuseppe Freinademetz: conosciuto da pochi,' è entrato nel cuore di tutti i tirolesi. «Già quando era ancora parroco le persone locali si sono accorte che lui era una figura eccezionale. Le uniche reliquie che abbiamo di san Giuseppe sono i capelli, che la perpetua ha tagliato prima che partisse per l'Olanda (1878), dove era la sede dell'ordine dei Verbiti e li ha tenuti con sé quasi presagendo la santità che era in lui. Quando era parroco a San Martino in Badia la gente faceva anche 6-7 ore di cammino per ascoltare le sue omelie» spiega mons. Egger. O ggi quasi ogni casa badiota mostra l'effigie di Giuseppe Freinademetz, beatificato nel 1975 da Paolo VI e proclamato santo il 5 ottobre 2003 da Giovanni Paolo Il. Anche se in 30 anni di missione in Cina non è mai tornato in patria, Giuseppe ha conservato intatto, attraverso le sue lettere, il rapporto con gli amici, la famiglia, la sua gente e la sua valle; questo rapporto non si è mai interrotto; egli ha continuato a vivere, anche dopo la sua morte, non solo nella Val Badia, ma in tutto il Sud Tirolo. «Mio padre, nato nel 1900, mi raccontava che si ricordava ancora quando in valle arrivò la notizia della morte del missionario - racconta padre Pietro lrsara, custode della casa natale del santo -. Nella nostra famiglia, come in molte altre della valle, si pregava per la beatificazione e poi per la canonizzazione di Giuseppe. Si notava già un'aria di santità in questa persona. Pochi anni dopo la sua morte scoppiò la Prima guerra mondiale e la gente si rivolgeva al missionario per chiederne l'intercessione. Quando, durante il fascismo c'è stato il problema dell'Opzione, molti, ancora indecisi, si rivolgevano a lui per chiedere consiglio sulla scelta da compiere». Oggi la casa di san Giuseppe Freinademetz è meta di pellegrinaggi che vengono dal Sud Tirolo, dall'Austria e dalle città d'Italia dove sono presenti i missionari del Verbo Divino. «Alla gente che viene 11 1111 1111 1111 Casa natale di san Giuseppe Freinademetz. Mons. W. Egger, vescovo di Bressanone. qui in pellegrinaggio - continua padre Pietro - ricordo la fede eroica che egli ci ha lasciato in eredità. Una fede che occorre vivere, non nascondere. Mi piace anche ricordare il rapporto di san Giuseppe con il dolore e la sofferenza. Lui ha sofferto molto, per questo poteva incoraggiare la famiglià, spiegare come il dolore non sia un castigo di Dio, ma un segno di Dio, una prova che Dio ci manda». U n'altra eredità lasciata da san Giusep- (( pe è l'amore per i cinesi - conclude padre lrsara -. Si è fatto cinese tra i cinesi. È riuscito ad amarli sinceramente, nonostante le difficoltà e sofferenze che ha provato. Le firme per la sua canonizzazione sono arrivate dalla Cina, dalla regione dove ha lavorato: ciò significa che la sua persona e il suo lavoro è ancora oggi riconosciuto e vivo tra la gente per cui ha dato la vita». La sua apertura all'altro ha precorso i tempi: Freinademetz aveva appreso che per capire e convivere con le altre culture e religioni, occorre convertire anzitutto se stessi. E in questo contesto risultano «provocatorie» anche le parole più semplici. In un'Italia dove i media continuano a propinarci stereotipi triti e ritriti, cercando di convincerci che viviamo nel «paese più bello del mondo», parliamo la «lingua più bella del mondo», abbiamo la «cucina più buona del monda>), è sconvolgente che più di 200 anni fa, un umile contadinotto di un'oscura valle dolomitica, scriveva: «Mi credete se vi dico che la Cina non è più brutta della bella Badia?)). MC APRILE 2006 • 23

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