Vittiml: t' l'arnd'ici Marx li avrebbe chiamati proletari. Noi, eufemisticamente, li chiamiamo working poors. Sono gli sfruttati dell'era del computer, quelli che consentono ad una minoranza di consumare fino allo spreco. Secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro sono un miliardo e duecento milioni di persone, sparse in tutto il Sud del mondo con punte più elevate in Asia, visto che è il continente più popolato. La loro caratteristica è di guadagnare meno di due dollari al giorno, la somma fatidica al di sotto deUa quale si è classificati come poveri estremi. l Lavoratori condannati alla povertà li incontri ovunque: nei campi , nelle miniere, nelle fabbriche, negli uffici. Estraggono carbone, zappano la terra, cuciono a macchina, fanno pulizie nelle banche e nelle case. La maggior parte di loro lavora per i mercati locali, ma non manca chi produce per il mercato globale. ECUADOR: LE BANANE DI «DOLE» Ecco Maria, bracciante a giornata nelle piantagioni d i banane in Ecuador. È madre di quattro figli e il suo sogno è di stare a casa ad accudire i bambini. Ma due anni fa è rimasta vedova e ha dovuto cercare h1voro. Tutte le mattine si alza alle quattro e mezzo per rassettare la casa e cucinare qualcosa da lasciare ai figli. Dopo di che si incammina verso l'incrocio con la statale, punto di raccolta dei braccianti in cerca di lavoro. Di D a poco arriverà il camion che passa a prelevarli e appena spuntano i fari è tutto uno sgomitare per conquistare un posto in prima fùa. Finalmente eccolo che arriva annunciandosi col suono del clacson simile al latrato di un cane. Mentre è ancora in movimento scende fulmineo il caporale che addentrandosi nella calca fa la selezione: «Tu sì, ru no, tu vieni, tu torna a casa». Per chi è escluso è inutile protestare perché il caporale non ha pietà. Scarta chiunque gli sembri malaticcio e chiunque abbia osato fare qualche lamentela. Maria ha la fortuna di essere forte e l' accortezza di essere stata sempre zitta. Perciò riesce a lavorare gran pa rte dell' anno. Ma è dura chinare la testa di fronte a ogni sopruso. Nelle piantagioni, i capi la maltrattano e non di rado tentano di abusare sessualmente di lei. Deve manipolare sostanze pericolose senza indumenti p rotettivi e la pelle si riempie di eruzioni che le fanno venire perfino La febbre. La legge prevede 8 ore di lavoro al giorno, ma nelle piantagioni se ne lavorano LO e anche 12. E la paga rimane quella minima prevista dalla legge: un doUaro e 90 centesimi al giorno. Maria soffre ma non protesta perché sa che non ci sono vie d'uscita. O prendere o lasciare e Maria prende perché pensa a Marcelino, a Casilda, ad Alieia, ajosé che sono a casa a patire la fame. Maria non lo sa, ma le banane che coltiva le compra Dole, che pensa a farle arrivare nei supermercati europei. In conclusione finiscono in bocca nostra, cos) come finiscono addosso a noi molti altri prodotti fabbricati nel Sud del mondo da parte eU operai e operaie che lavorano in condizione di semischiavitù. INDONESIA: LE SCARPE DI «NIKE» Un classico esempio sono le scarpe e i vestiti. O rmai tutti lo sanno: le lavorazioni che richiedono molta manodopera abbandonano i paesi iodustriauzzati e fuggono dove i salari sono anche 60 volte più bassi. ln Italia, un'ora di lavoro di un operaio del senore tessile-abbigliamento costa 15 dollari e 60 centesimi, ma in Indonesia costa solo 50 cemesimi, neUa Cina continentale 41 centesimi e in Bangladesh addirittura 25 centesimi. Se ci aggiungi che in questi paesi è proibito scioperare e formare un sindacato, capisci perché le scarpe sportive si producono quasi tutte in Estremo Oriente. Trymun è una ragazza indonesiana di 19 anni che lavora io una fabbrica di scarpe. Due anni fa lasciò il suo vi llaggio piena di ottimismo. Sperava di guadagnare abbastanza per mantenersi e mandare a casa un gruzzoletto. In realtà non ce la fa neanche a coprire le sue spese personali. Riesce a sbarcare il lunario condividendo la stanza con altre nove compagne e facendo un sacco di straordinari. Ecco il suo racconto: «Ogni giorno lavoriamo dalle 8 fino a mezzogiorno, poi facciamo pausa per il pranzo. L'orario del pomeriggio dovrebbe andare dall' una alle cinque, ma dobbiamo fa re gli straordinari rutti i giorni. Durante la stagione di punta lavoriamo fino alle due o le tre di notte. Anche se siamo sfmite non abbiamo scelta. Non possiamo rifiutare gli straordinari perché le nostre paghe di partenza sonobassissime. La mia corrisponde a 50 dollari al mese, che in realtà diventano 43, perché il datore di lavoro ci trattiene 7 dollari per La tassa di registrazione. Quando ci ho tolto le spese per il dorrnimrio,l'acqua e la corrente elettrica, mi rimane molto poco per mangiare». La fabbrica in cui Trymun lavora, appartiene a un sudcoreano, ma le scarpe che produce sono destinate a Nike, che è l'azienda leader nel settore deUe scarpe sportive. Le sue vendite coprono il 35% del mercato mondiale. Nel 2003 ha avuto ltn fatturato di 12 miliardi di dollari, una somma superiore al prodotto interno lordo dell'Etiopia che ha 67 milioni di abitanti. I suoi profitti sono stati 600 milioni di dollari. Ma Ntke si lamenta: «Con i tempi che corrono rimanere sul mercato è una battaglia continua. Per vincerla bisogna investire in pubblicità». E così fa. Abitualmente, dedica a questa voce il lO% del suo fatturato, e non solo per spot televisivi e anmtnci sw giornali, ma anche per sponsorizzaziopi. Strano mondo il nostro. Nel2003 J ames Le Bron, un atleta americano di pallacanestro neanche diciottenne, ha firmato un contratto di sette anni, che lo obbliga ad indossare maglie e scarpe col marchio Nike bene in vista. In cambio riceve 90 milioni di dollari. Trymun, che produce il bene su cui è costruito tutto il castel lo pubb licitario e commerciale, dovrebbe lavorare 150.000 anni per guadagnare la stessa cifra. Tutti si arricchiscono sul lavoro di Trymun, tranne lei. Su un paio di scarpe che in negozio pag,hi 70 euro, aTrymun va solo mezzo euro, poco più poco meno, a seconda del cambio col dollaro. In defmiriva, il prodotto di Trymun è come le patatine fritte. Un bene insignificante che fa da pretesto per vendere una confezione ingombrante, e permettere a pubblicitari, imprenditori, supermercati e altri parassiti di avere la loro fetta di guadagno. Verificare per credere. Sul prezzo finale di un paio di scarpe Nike, il lavoro di assemblaggio incide per lo 0,4%, il materiale e le altre spese di produzione per il9,6%, il trasporto per il5%. ll resto sono balzelU privati e pubbuci: tasse governative 20%, profitti del produttore 2%, pubblicità e marketing 8,5%, progettazione 11%, profitti di Nt'ke 13,5%, quota del rivenditore 30%. MC l ottobre·no~bre 2005 pagino 15
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