Missioni Consolata - Maggio 2005

nessuna terapia sa lenire. Donna resistente al dolore fisico, è capace di soffrire fn silenzio per non disturbare e non preoccupare noi figli. Si lamentava quando non ne poteva più. Ultimamente il lamento è diventato abituale, seppure impercettibile. Continua a lavorare a maglia finché le mani e le forze glielo permettono. Conservo ancora oggi le tovaglie d'altare o altri paramenti ricamate da lei su misura: un vero capolavoro! Nelragosto del 2004 cade in casa e si spezza il femore con conseguente operazione, riabilitazione e ritorno alla vita non più normale. Ora cammina storta, appoggiandosi al bastone sostegno, ma anche sicurezza incerta. La rottura del femore è un colpo decisivo, un giro di boa. La guardo e la vedo invecchiata ancora di più. Ai miei occhi non appare più la donna vigile e attenta, piena di grinta e di voglia di lottare, la donna che mi teneva testa in ogni circostanza e situazione, la donna indistruttibile ed «eterna» che avevo sempre coltivato dentro di me. Ora vedo, per la prima volta, una vecchietta ricurva, sofferente che invoca la morte come un dono; vedo una donna instabile fisicamente, ma che sa di non potere morire perché éè ancora un problema che attende e necessita la sua presenza; ancora una volta, come dieci anni prima, all'età di 70 anni compiuti, di fronte alla tragedia che si abbatte sulla famiglia, schiacciata, ma non oppressa, smarrita ma per nulla sconfitta, vedo una donna che ha la forza di dire ai figli: «Rimbocchiamoci le maniche e ricominciamo daccapo». Vuole morire, ma non può e resiste nonostante la sua giornata sia diventata una lenta agonia senza nemmeno un'ora di respiro. S'immola fino alla fine. Oltre la fine. Fa la comunione ogni volta che vado a trovarla, perché ora non può partecipare alla messa domenicale e queHa in Tv non le piace, anche se la segue. Prima di essere operata alfemore mi chiede il sacramento dell'olio: bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza. Il suo desiderio è la morte, la sua condanna è la vita. Nel frattempo, arriva l'ultimo regalo: un tumore al fegato e un riversamento polmonare e addominale. Gli ultimi due mesi di vita. Una vecchiaia laDonier MC l maggio 2005 pagina.« cerata, strappata pezzo per pezzo, senza risparmiare nulla. Un tormento per lei e per noi che rassistevamo impotenti. Scorticata come san Bartolomeo. Mi dice che hanno un bel dire coloro che inneggiano all'allungamento della vita visto come traguardo di civiltà. Vedendo se stessa invecchiata in mezzo ad altri vecchi che stanno anche peggio di lei, sì, con la vita allungata, ma in mezzo a sofferenze indescrivibili, fisiche e morali, commenta: non si i! allungata la vita, prolungano la sofferenza. Ancora una volta non aveva sbagliato diagnosi. Circondata da una siepe di affetto e di presenza, non possiamo lenire il suo dolore e fermare il suo invecch~are lento e inesorabile davanti ai nostri occhi e alla nostra impotenza che inconsciamente chiede al Signore il miracolo impossibile. Forse avevamo paura per noi stessi più che per lei: la certezza che sarebbe morta e che quindi d sarebbe stata tolta, d rendeva più vecchi di lei, più incurvati, più fragili e più piccoli . Eravamo sempre presenti perché volevamo godercela più a lungo possibile, sapendo che ogni giorno poteva essere rapita al nostro sguardo, ma non al nostro cuore. L'ULTIMO NATALE Quando a Natale del2004 avemmo la sentenza che non sarebbe arrivata oltre i tre mesi, decidemmo di portarla a casa sua, nel suo ambiente, nel suo angolo di cucina, dove trascorreva il tempo che ormai era scandito solo dal dolore e dall'attesa della morte. Assistita dall'«Associazione Gigi Ghiotti», sotto morfina 24 ore su 24, camminammo insieme incontro alla morte perché lei era a conoscenza del suo male e del suo destino. Camminava a fatica e il giorno di Natale, volle vestirsi di tutto punto e sedersi a tavola con figli e nipoti. Disse: «Vogtio dirvi due cose. Primo: siamo alta fine. Secondo: chiedo perdono a tutti se ho fatto del male e se l'ho fatto non l'ho fatto apposta». Scavata nel volto e lenta nei movimenti, aveva ancora il timbro di una voce decisa e solenne, indomita e autorevole. Invecchiata, ma non vecchia! Figli, nipoti e nuore presenti abbiamo avuto la certezza che stavamo vivendo il vero Natale. Con una differenza: non nasceva in casa nostra un bambino, ma una donna anziana, malata di tumore e consapevole di morire, stava rinascendo lei e ci coinvolgeva nella sua rinascita. Ci sembrava di ascoltare il messaggio del natale di Betlemme: non celebrate la mia nascita perché «<o-Sono» da sempreJ celebrate piuttosto la vostra ri-nascita di creature nuove. Accanto alla culla del Bambino éè La croce della mamma anziana e malata che sta andando per rinascere ad una nuova vita insieme al marito e al figlio. La culla e la croce. Era solita ripetere una filastrocca che sua mamma le aveva insegnato da piccola: «Quando nacqui, una voce mi disse: "tu sei nata a portar la tua croce"». La culla e la croce furono la dimensione della mia mamma che nella sua vita coniugò due soli verbi: soffrire e servire. Nacque per soffrire, soffrì vivendo. La mamma con la sua richiesta di perdono e con la sua trasparenza di vecchiaia divenuta semplicità di bambina, esercitò il suo alto magistero di vita perché in un istante unificò il tempo e l'eternità, fon~ dendoli insieme. Una donna anziana che sta per morire e ancora capace di generare senza cakoli e sen-

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