La cattiva gLobaL~eQlone (2) QU~NDO VINCONO LA PRECARIETA E LA DELOCALIZZAZIONE Dicono che l' occupazione è aumentata. Anche fosse vero, è un' occupazione dove la precarietà è la norma. Intanto le industrie cercano il profitto dove il lavoro... Una volta, non molti anni fa, il contratto di lavoro più diffuso era quello detto «a tempo indetenninato». Oggi è praticamente impossibile che un giovane, anche con una laurea in mano, possa avere un contratto di quel tipo. Sono cambiati i tempi e le esigenze, dicono. Oggi i contratti sono dd ~!_po «flessibile», che dal punto di vista dd lavoratore signilica «precario». Precaria la durata del lavoro, precario il salario, precaria la vita. Gran uso di questi contratti ne fanno, ad esempio, i call-ctmters, la nuova frontiera del lavoro precario. La precarietà diffusa, ha scritto I'Eun'spes, impedisce di progettare il futuro. «La flessibilità - conferma Guido Sarchielli, professore all'Università di Bologna -, quando viene vissuta come precarietà incontrollabile, può avere conseguenze molto negative. Cosl si accentuano i rischi di disagi di natura psicologica: insicurezza, ansia e stati depressivi>>. La crisi colpisce tutti i settori produttivi. Drammatica è la situazione dei produttori agricoli dd Sud Italia, strozzati dalle importazioni a prezzi stracciati e dal monopolio dei distributori (ma i conswnatori finali non si giovano di alcuna riduzione di prezzo, anzi...). L'industria italiana (e occidentale in genere) continua a perdere occupati. Quando non si trasferisce all'estero, utilizza l'espediente dell'outsourang, attraverso il quale si cerca di ridurre i costi ed i rischi facendoli pagare ai più deboli della catena produttiva. Ancora più devastante è il fenomeno dd trasferimento delle produzioni in altri paesi (de/.ocalra.a:done): nd lontano Oriente (Cina, India, Malaysia, Indonesia), ma anche a due passi da casa (Romania). Leggiamo sul Piccolo dizionario critico della globaliv.azione: «L'attuale "impresa globale" non ha più centro, è un organismo senza corpo né cuore, niente più di una rete costituita da diversi dementi complementari, sparpagliati attraverso il pianeta (...). L'impresa globale ricerca il massimo profitto attraverso le delocalizzazioni e l'aumento incessante della produttività: questa ossessione la porta a produrre là dove i costi salariali sono più bassi e a vendere là dove il tenore di vita è più alto». Ma alla lunga i risultati sono negativi per tutti o quasi. Al Sud si produce sfruttamento di uomini e risorse con perdita delle peculiarità locali (si pensi alle maquilas in Messico e nei paesi dell 'America Centrale); aJ Nord, licenziamenti di massa, perdita del potere d'acquisto della classe media e aumento esponenziale della precarietà sociale. Sulla globalizzazione così si è espresso Joseph Stig.litz, pre· mio Nobel per l'economia, «Oltre a non funzionare per i molti poveri dd mondo e per gran parte dell'ambiente, non funziona neanche sotto l'aspetto della stabilità delle economie». Insomma, forse è il caso di cominciare a recla· mare con chi continua a venderei i prodotti del neoliberismo e della globalizzazione. Pa.Mo. FoNll: • lgnacio Ramonet, Ramon Chao, Jacek Wozniak. Piccolo dizionario critico della globaliuaziOIIe, Sperling&Kupfe~: &Jitori, Milano2004 • R.Myro, c.M.Ferniodez-Otheo, Los mitos de la deslocaliza· a(m, io .. Forejgn Policy» (edizione spagnola), ottobre-no· vembre 2004. Noi non crediamo al dare gratuitamente nel senso caritativo, perché fa s1 che le persone diventino di - penden ti. Se vengono sowenzionate, risolti i problemi, diventano inabili: noi vogliamo crescere insieme! Quindi, il nostro rapporto è di reci · procità. La competizione si fa con quelli che non vogliono cooperare, che agiscono suJ mercato in modo ingannevole, guadagnando sull'ignoranza del consumatore ecc.». liscono cen e ingiustizie. Mi spiego. Abbiamo visto che le persone contribuiscono alla forma - zione del capitale con il loro lavoro. In un sistema diverso da quello solidale, quando una persona lascia l' impresa per cui ha Lavorato perde quello che ba contribuito a costruire. Noi crediamo che questo non sia giusto. tutti. Poi ci sono bisogni individuali distinti: spirituali, culturali, eccetera. Per questo diciamo che la vita dell'individuo non può essere pianificata socialmente da un' unica istanza centrale, come si fa nell 'economia socialista. Passiamo al confronto con un sistema ad economia socialista, pro· fessore. «Noi diciamo che la nostra eco· nomia di solidarietà nasce dal basso. Si rapporta con lo stato, ma non è sLatale. Siccome vogliamo lavorare suJ mercato e fare degli utili, cerchiamo di essere autonomi dallo stato per non ~ubirne i r!catti .politici. Come sp1egavo pnma , il nostro concetto di proprietà non è un concetto collettivo, perché quando la proprietà diventa collettiva si stabiMC l mar1o 2005 pagina 60 Pensiamo alla ex Jugoslavia e al suo sistema di proprietà collettiva e di autogestione. I lavoratori non contribuivano efficacemente allo sviluppo, perché l'impresa era aliena: era di tutti e di nessuno. Infine, il concetto di pianificazione. In un'economia socialista viene pianificata la produzione, le risorse, a seconda di una concezione tecnica eli quale siano i bisogni delle persone e deUa società. Noi abbiamo un'altra idea in proposito». E quale sarebbe? «Noi diciamo che esistono dei bisogni di base che sono uguali per Crediamo di aver individuato nel - l'economia di solidarietà, una razionalità economica che è eticamente superiore e coerente con una concessione più integrale dell'uomo e della società>>. Lei sembra molto ottimis ta. Però l' economia solidale non rischia di essere schiacciata dall 'economia ca· pitalista che, nonostante gli enormi problemi di quest'epoca storica, è rimasta in pratica senza avversari? «l o sono convinto che l'economia capitalista, che sembra così forte, è in una fase di riduzione; per non dire di collasso. E ciò per molti motivi. Per esempio, l'esasperata competizione che è implicita al sistema (le in-
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