Missioni Consolata - Febbraio 2005

rapporti umani e l'esistenza di intere popolazioni, come nel caso del conflitto israelo-palestinese>>. In un'intervista pubblicata 1'anno scorso su Dox lei aveva dichiarato di non essere una persona politicamente impegnata, <Ji non andare alle manifestazioni. E ancora vero? «Ora che Checkpoint è uscito mi sono ritrovaw, senza vole rlo, politi - camente coinvolto. Non ne posso fare a meno: è un fùm politico». Il suo è un documentario completamente girato tra i 200 posti di blocco israeliani nei territori palestinesi. Denuncia la dura condizio· ne di oppressione in cui vive la po· polazione araba, ma anche il degrado umano e sociale dei giovanj militari isradjani, costretti a obberure a ordini di c,ui non comprendono la portata. E un'opera di no· tevole durezza, che non concede sconti. Perché, come israeliano, ha deciso dj realizzarla? «Volevo rendere visibile agli israeliani ciò che sta quotidianamente accadendo nei Terri tori palesti - nesi occupati, cosa ciò significhi per loro e per noi. Mi interessava far emergere le implicazioni psicologiche dell'occupazione. Tra le difficoltà incontrate nella realizzazione di questo film c'è stata anche l' iniziale incomprensione dei miei genitori: provenendo da famiglie di mi[jtari , non riuscivano a comprenderlo, ad accettarlo. Ora è diverso: hanno finalmente imparato ad apprezzarlo>>. Che cosa significa per gli israelia· ni far vivere un popolo sotto occu· pazione? «È ciò che sta accadend o dal 1967: la nostra società è diventata più aggressiva, più brutale, al suo interno prima di tutto. In questi ultimi anni è stata pubblicata una ri - cerca che denuncia un aumento della violenza tra la popolazione israeliana. Violenza "civile", dunque. C'è infatti una interconnessione tra la politica di occupazione e il peggioramento dei rapporti imerpersonali nella nostra società: il primo aspetto inevitabilmente sta influenzando il secondo. Una società sana non può far finta che la violenza esterna non condizioni, in negacivo, i comporcamenci all ' interno della società stessa. Questo vale anche per la popolazione palestinese, che è diventata molto rnilitarizzata; anche i giochi tra bambini imitano situazioni di aggressività. Siamo di fronte a due popoli che si stanno auto-distruggendo». In Checkpoint lo spettatore non assiste a scene dj violenza fisica, ma è molto presente la violenza psicologica. Perché ha scdto di cogliere questo aspetto piuttosto che l'altro? «È vero, c'è molta violenza mentale, psicologica. Ho focalizzato le mie riprese solo nei microcosmi dei checkpoint, e non su ciò cbe accade per le strade. H o sostato per ore, per mesi, tra il2001 e il 2003 ai posti di blocco, e ho registrato ciò che vedevo: al 99 pe r cento si è trattato di violenza psicologica. La violenza fi . sica è minima, nella maggior parte dei casi assistiamo a scene come quella del soldato che proibisce alla mamma di portare il figlio dal medico, dall 'altra p arte del checkpoint». Lo spettatore non euò non provare empatia nei confronti dei palestinesi: avverte il loro dolore, la rabbia per le ingiustizie subite. n suo, dunque, è un 61m di parte? «Ho cercato di cogliere differenti punti ili vista: talvolca quello dei palestinesi, talvolca quello dei soldati israeliani H o cercato di fare un fùm in cui venisse r itratto come vittima non solo il palestinese, ma anche il giovane militare. E la complessità di una situazione in cui rutti soffrono». Ma la sofferenza dei palestinesi emerge in modo più evidente... «Certo, perché loro sono le vitti - me. Anche se la verità non è solo bianca o nera: anche i soldati ai posti di blocco possono essere considerati delle vittime a causa della dif. ficile situazione in cui si trovano. Talvolla possono sembrare delle "marionette" cbe eseguono ordini provenienti dall ' alto. Sono molto giovani e sp esso con poca consapevolezza del proprio ruolo. Forse per questo il film viene proiettato anche nelle caserme israeliane...». Qual è il suo obiettivo: farli ri· flettere e cambiare atteggiamento nei confronti deUa popolazione palestinese? «Non so in real tà perché l'eserdto abbia deciso di proiettare il mio documentario. Forse perché, quando fai il soldato ad un posto di blocco non hai la possibilhà di vedere la situazione con obiettività, dall'esterno. Ecco, allora, che questo film può aiuLare a fare un passo indietro e a guardare in modo p_iù oggettivo. Molti fra gli alti livelli dell 'esercito non sanno ciò ch e avviene ai checkpoint: qualcuno l 'ha scoperto recandovisi in incognita ed è rimasto attonito». Come vede il futuro? «Qualche volta sono omnusta, qualche altra pessimista. Dipende. Penso che la soluzjone è così semplice. n grande problema è la de-umanizzazione dell 'altro, del nemico, che non viene più percepito come essere umano. La società palestinese è molto scolarizzata, evoluta. Credo ci possano essere tanti punti di contatto, di dialogo. Le ferite possono rimarginarsi anche se profonde. Un'altra questione è: due stati per d ue popoli, o uno stato per due popoli? Personalmente preferirei la seconda ipotesi. Altrimenti sarebbe come creare un ghetto ebraico in te rritorio arabo. Israele potrebbe mvece assimilarsi nell 'area: il 60 per cento degli israeliani ba radici arabe, viene, cioè, dal Marocco, dall 'I - raq, dallo Yemen , ecc. La maggior parte è cresciuta in questi ambienti misti, parla l'arabo. G li altri, quelli che arrivano dall'Europa o dall'America, in maggioranza sono di sinistra. Dunque, la soluzione potrebbe essere molto più semplice di quanto si pensi». Se è così semplice, perché non è stata ancora trovata? «Molti ci provano. È cbe tanti israeliani vedono i paesi arabi come un 'unica entità: l' idea del panarabiMC l febbraio 2005 pagina 59

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