vedrà ciò che farà, aspetto, questo, più importante di qualunque nome o descrizione. Mosè però non è soddisfatto. Dice che non gli crederanno. Dio allora gli insegna tre prodigi da compiere per mostrarsi credibile (Es 4,1-9), ma Mosè obietta ancora di non essere capace a parlare bene ottenendo in risposta l’osservazione che è stato Dio a plasmare la sua bocca, e che suo fratello Aronne potrà parlare al posto suo (Es 4,10-16). A questo punto, Mosè decide di parlare in modo chiaro ed esplicito: «Signore, manda chi vuoi mandare» (Es 4,13), che nel modo di esprimersi dell’ebraico sottintende «... ma non me; manda un altro». Mosè ha finito le obiezioni, ma non vuole essere inviato. Dio, dal canto suo, si arrabbia, ma poi gli prospetta la soluzione, e gli rinnova l’invio. Il più grande uomo sulla terra, colui che parlava con Dio faccia a faccia... non avrebbe voluto ascoltarlo, ha tentato di tutto per sottrarsi alla chiamata. E Dio si è anche irritato, ma non lo ha castigato, ha ribattuto con altre argomentazioni, si è impegnato alla pari con l’uomo. Dio ha un piano, un progetto, ma non agisce indipendentemente dall’uomo, chiede e insiste per avere la sua approvazione e collaborazione. Il chiamato diventa colui che chiama Non accompagniamo Mosè in tutto il suo percorso: i primi colloqui con il faraone, le piaghe, la notte di Pasqua, la fuga con tutto il popolo, il passaggio del mare, il cammino nel deserto tra sete fame e mormorazioni, la salita sul monte, il ritorno a valle e la scoperta che il suo popolo, non vedendolo arrivare, si era fuso un vitello d’oro da adorare. Due episodi ulteriori però ci possono insegnare molto. Proprio quando Mosè scende dal Sinai e trova il popolo in festa intorno a un idolo, sembra che sia Dio stesso a perdere definitivamente la pazienza: «Mosè, basta. Io adesso li distruggo. A te darò un altro popolo, e sarai grande. Ma questi, sono irrecuperabili» (Es 32,9-10). A questo punto il Mosè timido e pigro, che aveva paura di sfidare il faraone, obietta a Dio stesso: «Perché dovresti distruggerli? Vuoi che si dica che non sei stato capace di nutrirli nel deserto? Ricordati delle promesse fatte ai patriarchi...» (Es 32,11-14). E Dio cambia idea, si pente. È Mosè a ricordargli la sua parola, la sua dignità, il suo ruolo. È Mosè a richimare Dio ai propri doveri. Mosè, come un amico, alla pari, ricorda a Dio la sua vocazione. Era stato il Signore a insistere e argomentare perché l’uomo assumesse la propria chiamata, è l’uomo ora a rammentarla a Dio, come in un rapporto, appunto, tra amici. Vedere Dio Quindi, dopo aver riconfortato l’Altissimo, Mosè si occupa delle cose umane, stroncando con durezza il culto del vitello... Subito dopo, però, e prima di tornare sul monte per riscrivere le tavole divine che ha spezzato, Mosè esprime un desiderio assolutamente comprensibile, dopo tanta strada e tante avventure insieme: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18). L’uomo che ha guidato un popolo intero in imprese inimmaginabili, che parla faccia a faccia con Dio, chiede di poterne vedere la gloria. Questa non è semplicemente l’esaltazione di qualcuno, ma il suo senso profondo, la sua immagine più autentica e intima. Mosè chiede di capire Dio, ricerca e domanda che possiamo comprendere benissimo (noi potremmo dire, in termini diversi e più laici, che vogliamo cogliere il senso di ciò che facciamo). E Dio, che da Mosè si è lasciato convincere e convertire, si nega. «Nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20), che a prima vista interpretiamo come «Chi mi vede, muore». Il Signore ha tuttavia un piano di riserva: «Passerò davanti a te, coprendoti il volto. Vedrai solo le mie spalle, dopo che sarò passato» (v. 22). Questa ultima indicazione aiuta forse a comprendere meglio il brano, anche alla luce del senso esistenziale che possiamo riconoscervi. Dio si può vedere solo alle spalle, dopo che è passato, dopo che ha già agito. In fondo, è ciò che ci accade con tutto ciò che è più autentico e profondo nelle nostre esistenze: ne cogliamo appieno il senso e il valore quando si sono chiuse, quando l’esperienza non è più attiva. Ecco che allora l’affermazione divina ha un doppio valore. Da una parte, si potrebbe parlare pienamente di Dio solo quando tutta la storia con lui si fosse chiusa, quando fosse conclusa e definita. Dall’altra, Dio sostiene che, almeno da parte sua, finché ci sarà vita, lui non si tirerà fuori dalla storia della relazione con Mosè, o con gli altri esseri umani. Si può vedere la gloria di Dio, il suo volto, solo morendo, perché solo allora, nella morte, si potranno tirare le somme definitive. Dio, infatti, non ha intenzione di ritirarsi dal rapporto con noi, e ci resterà sempre accanto, tutti i giorni della nostra vita. Non quindi «Chi mi vede, muore», bensì: «Per vedermi pienamente, occorre essere morti». E noi? C’è quindi qualcosa che possiamo imparare dal grande padre Mosè? Di certo cogliamo che Dio non privilegia i perfetti, chi non ha dubbi o incertezze o limiti. Mosè è pieno di difetti, eppure diventa l’«amico di Dio». Non conta la perfezione, ma la capacità di mettersi sempre in discussione, in cammino. E la vita di Mosè, a ben vedere, non si presenta neppure essa come perfetta: al di là delle colpe, dei limiti di parola o di carattere, guida per più di quaranta anni il popolo nel deserto ma muore prima di arrivare alla terra promessa. Eppure resta colui con cui Dio parlava faccia a faccia. Dio non misura la nostra vita sulla qualità o quantità delle nostre realizzazioni, ma sulla profondità della relazione (anche complessa e contorta) con lui. E se non è lui a «giudicarci» sui nostri risultati, perché dovremmo farlo noi? Angelo Fracchia (Camminatori 04-continua) | MC | MAGGIO 2023 34 CAMMINATORI DI SPERANZA
RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=