e Perlo economo. A Zanzibar sono accolti molto bene dal vescovo. Il 20 giugno partono per vedere dove potranno andare. Sanno dell’esistenza del Kikuyu solo perché alla missione di Saint Austin, nei pressi di Nairobi, è sceso un capo locale, Karoli, che ha simpatizzato con la missione, ma nessuno c’è mai stato, tanto che, nonostante la preparazione, hanno rischiato di morire assiderati nel viaggio sulle montagne. Il 29 giugno il vescovo li lascia soli a Tuthu, a 2.220 m, senza nessuno, come casa la baracca costruita da un avventuriero inglese, e devono cominciare a guardarsi attorno e iniziare a fare missione. Per i quattro è una grande sfida; questa situazione non si ripeterà più nella storia dell’istituto. Perlo si innamora del Kikuyu, nonostante le fatiche fisiche. Consiglia a Gays, che ha dubbi e paure, di dedicarsi a curare gli ammalati per stabilire un contatto con la gente. I fratelli riparano e migliorano la baracca. Perlo comincia una perlustrazione sistematica del territorio, da solo in giro per il Kikuyu. Sul retro di una pagina del suo diario datata 8 agosto 1902 disegna la mappa della zona, sul verso dice di aver incontrato anche dei pastori nomadi (i Maasai), per i quali bisogna inventare un metodo missionario diverso da quello degli Akikuyu e dotarsi di un carro come quello dei nostri saltimbanchi per seguirli nei loro spostamenti. Pochi giorni dopo scrive all’Allamano: «Io qui ho bisogno di due cose soltanto: tanti missionari e tante suore». Attriti in famiglia La lettera arriva quando la Consolatina è chiusa. Perché? Tra i missionari partenti e quelli rimasti a Torino c’erano stati degli attriti. Il giorno della partenza non si erano nemmeno salutati alla stazione. Qualcuno sosteneva che padre Gays era stato mandato per primo in missione perché aveva raggirato l’Allamano, che il fondatore non si fosse comportato in maniera equa nella scelta dei primi candidati alle missioni. Si borbottava e alcuni rivendicavano il diritto a partire per primi. Tornato a casa, l’Allamano ha pregato, e poi ha mandato a casa gli otto rimasti. Il giorno dopo porta le chiavi della casa al santuario della Consolata dicendo alla Madonna: «L’istituto è tuo, pensaci tu». Grazie alla lettera di Perlo che chiede non solo missionari, ma anche suore, l’Allamano prende coscienza del suo proprio ruolo formativo (cfr. le Conferenze Spirituali: «Lo spirito ve lo do io»). Per quelli che entrano e che sono già preti, non basta aver messo un vicerettore (padre Costa), ci vuole la sua stessa presenza. Ma perché padre Perlo chiede tanti missionari e suore? Nelle sue esplorazioni ha ispezionato tutte le località adatte ad aprire una stazione missionaria nel Kikuyu, con il criterio di realizzare un catena con tante missioni distanti una dall’altra una giornata di cammino, a partire dalla stazione ferroviaria di Limuru fino ad arrivare alle falde del Monte Kenya. L’intento è di occupare un’are continua, senza essere bloccati da missioni protestanti, perchè i colonizzatori inglesi hanno messo una regola ferrea: tra una missione cattolica e una protestante ci deve essere almeno una giornata di cammino. Padre Filippo Perlo è appena arrivato, ma innamoratosi del luogo, ha deciso di non andarsene più. La sua grandezza è di aver inventato una metodologia missionaria. Di per sé, i missionari della Consolata potrebbero imparare dai Padri dello Spirito Santo che hanno un’idea benedettina della missione. Questa è basata sul creare una struttura centrale che garantisca sicurezza e salute e faccia della missione un faro di civiltà. L’africano si sarebbe convertito Qui: foto di gruppo dei primi missionari della Consolata in Kenya, riuniti a Fort Hall tra l’uno e il tre marzo 1904. © Archivio storico IMC ottobre 2022 39 Murang’a 2 MC
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