pAGINE DI VITA 80 giugno 2022 MC Appena nominato rettore del santuario, l’Allamano ottenne dall’arcivescovo la facoltà di trovarsi un collaboratore di suo gradimento. La scelta cadde subito su Giacomo Camisassa, di cui aveva potuto apprezzare le qualità quando era in seminario. In tutte le principali opere dell’Allamano, il Camisassa svolse sempre un ruolo indispensabile, anche se subalterno. Una biografia del Camisassa titola giustamente e in senso positivo: «La beatitudine di essere secondo». La parte di ciascuno fu sempre chiara: l’Allamano era l’anima, la forza interiore di tutto. L’ispirazione gli apparteneva per vocazione. Al Camisassa, straordinariamente dotato sul piano pratico, pur essendo un sacerdote di elevata spiritualità, era riservata piuttosto la parte di organizzatore e di realizzatore dei progetti. Ruoli precisi e distinti, ma non separati. Ogni opera veniva sempre programmata in comune. Nel 2001, i resti mortali del Camisassa furono trasferiti dal cimitero di Torino alla Casa Madre in corso Ferrucci, e riposti in un elegante sarcofago in legno nella sala adiacente a quella dove vi è l’urna con la salma dell’Allamano, nella chiesa dell’Istituto dei missionari in corso Ferrucci. Così i due sacerdoti che vissero insieme per più di 40 anni, condividendo in totale armonia ideali, preoccupazioni e iniziative per il santuario della Consolata e per le missioni e i due Istituti missionari, ora riposano uno accanto all’altro. ERAVAMO UNA COSA SOLA «Tutte le sere passavamo in questo mio studio lunghe ore… qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa… insomma tutto si combinava qui». «Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto». Queste affermazioni dell’Allamano dicono bene non solo il metodo di lavoro, ma anche lo stile del loro rapporto interpersonale. Un momento forte della collaborazione si realizzò quando il Camisassa venne inviato a visitare le missioni del Kenya, a cavallo degli anni 1911 e 1912. Essa ebbe una indubbia importanza, non solo per lo sviluppo successivo della missione, ma anche per la sistemazione interna dell’Istituto. L’Allamano ne era più che convinto e ai giovani missionari, mentre il Camisassa era ancora in Kenya, spiegò: «Domandiamoci un po’: “Va bene la nostra Comunità?”. Questa domanda io me la faccio sovente, ora soprattutto che sono generalmente solo; mi esamino per qui e per l’Africa; prendo il mio taccuino e passo in rivista questo e quello, quell’altro. Questo è appunto il motivo per cui il vice rettore ha fatto il sacrificio di andar in Africa: è andato là per parlare con i missionari, prima in privato, nelle singole missioni, e poi durante gli esercizi spirituali, ed anche dopo, per intendersi con loro sulle Costituzioni, sul Regolamento, sulle preghiere, ecc.; tutte cose che furono scritte e se ne fece come un formulario: così si avranno i consigli di tutti e si osserveranno più volentieri le regole fatte da loro stessi». Alla morte del Camisassa, l’Allamano aveva 71 anni e la sua salute non era florida. Rimasto solo, ebbe la sensazione di avere improvvisamente «perduto tutte due le braccia», come candidamente confessò. «Sì, non mi sembra vero che non ci sia più, ma penso che ci sia il suo spirito… ci siamo solo sempre amati nel Signore... Erano 42 anni che eravamo insieme, eravamo una cosa sola... Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto». GIUSEPPE ALLAMANO SI RACCONTA
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