maggio 2022 41 impossibile dormire, ci stringiamo l’uno all’altro avvolgendoci con coperte di lana. Alcuni ragazzini passano vendendo tè caldo e qualcosa da mangiare. Sono passate 24 ore dall’inizio della mia fila. Approfittando del buio e di alcuni buchi nella recinzione, dalle colline intorno arrivano uomini e ragazzi che provano a passare illegalmente. La gente è solidale con loro, fanno spazio serrando le fila. Qualcuno non è abbastanza veloce e viene visto, picchiato e trascinato via, ributtato al di là della rete. Stanchezza, fame, freddo, sonno Dopo 33 ore, raggiungo l’ultimo cancello. Qui devo mostrare la mia identità. Tiro fuori il passaporto e il permesso giornalistico, ma il Talebano di guardia non riconosce i documenti: comincia a urlare. Provo a spiegare di essere un reporter, ma lui parla solo pashtun, allora comincia a picchiarmi con un bastone. Provo a proteggermi, cado. Un altro soldato mi riporta all’inizio della fila per motivi che non comprendo. Passano altre tre ore, io e altre centinaia di afghani siamo bloccati a un passo dal Pakistan. La gente è agitata, è stanca, ha freddo, sonno, fame. Comincia una calca che le due guardie al cancello non riescono a contenere: sfondiamo l’ultimo blocco passandogli sopra. Cadiamo, ci rialziamo, in una delle cadute un ragazzo su una sedia a rotelle mi passa sopra una caviglia. La gente corre verso l’ultimo cancello, esausta. Ci vuole ancora qualche ora per sbrigare le pratiche di ingresso in Pakistan. Rivestiti i panni del cittadino europeo, le mie sono abbastanza veloci. In totale ho impiegato 40 ore per attraversare il confine, senza dormire, senza bagni, con quel poco cibo venduto per strada. Per migliaia di afghani, invece, la tortura continua in Pakistan. Molti arrivano con documenti non validi e vengono rispediti dall’altra parte del confine dove, per giorni, continueranno a provare il passaggio. Ancora e ancora. Coperte, bicchieri e il sogno di tornare Le persone conosciute e con cui ho parlato durante le interminabili ore dell’uscita verso il Pakistan sono state tante. Cosa si porta con sé quando si va via per sempre? Alcuni avevano solo le proprie coperte, bellissime coperte afghane di lana cucite a mano. Altri una confezione di bicchieri di vetro, altri un piccolo zainetto con un cambio, i bambini un giocattolo a testa. A un uomo, in fila con la sua famiglia accanto a me, quando gli ho chiesto cosa avesse deciso di portare, mi ha risposto: «Nulla, se non il necessario per sopravvivere in questi giorni di attraversamento. Dentro di me porto la bellezza dell’Afghanistan, i suoi colori. I miei figli sono troppo piccoli e non ricorderanno cosa stanno lasciando. Io sono troppo vecchio e non penso riuscirò mai a tornare, ma loro sì, sono sicuro che lo faranno. Ecco perché non sto portando niente se non un tasbih (il rosario musulmano), il Corano con la parola di Allah, ma soprattutto l’amore per il mio paese che cercherò di raccontare ai miei figli. Possano loro tornare qui, in un paese finalmente in pace». Angelo Calianno I «nuovi» Talebani MC
RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=