nostra madre terra 64 gennaio-febbraio 2022 MC spesso colpisce le aree naturalistiche sotto vincolo, come è avvenuto nella riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani, nel Metapontino in Basilicata, nella riserva di Punta Aderci e nelle colline intorno a Pescara, nelle aree protette del Lazio, sulla costiera amalfitana, nella Sila e in provincia di Olbia. In Italia, la situazione è aggravata da due fattori: da un lato l’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni, che hanno caratterizzato gli ultimi anni con conseguente siccità sulle foreste, che risultano quindi meno resilienti nei confronti degli incendi; dall’altro gli errori nella scelta delle piante nelle attività di forestazione. Talora, infatti, vengono scelte, per la piantumazione di aree verdi, specie che soddisfano solo le ragioni estetiche, ma sono inadatte a resistere all’impatto climatico. Come capitò nel 2017 quando un incendio colpì le pendici del Vesuvio, dove erano stati piantati dei pini, che nulla avevano a che fare con la flora del territorio, cioè la macchia mediterranea, la quale ha una maggiore capacità di resistere alle temperature locali. In Italia, il pericolo d’incendi ha un andamento stagionale legato al fattore climatico, che influenza il grado di umidità della vegetazione, in particolare di quella erbacea del sottobosco. Ci sono zone dove il pericolo d’incendio è maggiore che in altre. In base all’andamento meteorologico e climatologico, possiamo individuare due periodi di particolare pericolosità: quello estivo per le regioni del Sud e per la Liguria, e quello invernale per le regioni dell’arco alpino, quindi ancora la Liguria, il Piemonte, la Lombardia e il Veneto. Ci sono, inoltre, diverse situazioni, che possono favorire lo scoppio di incendi boschivi come l’afflusso turistico, il già citato abbandono rurale delle campagne, particolari attività agronomiche e pastorizie, le vendette e le speculazioni. Queste ultime andrebbero sempre e comunque contrastate in base all’art. 9 della legge 1 marzo 1975, n.47, che vieta l’insediamento di qualsiasi tipo di costruzioni nelle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco, impedendo così che tali zone assumano una diversa destinazione rispetto a quella avuta prima dell’incendio. Non sempre però gli incendi sono di origine dolosa, seppure correlati alle attività umane. È stato, infatti, osservato che ad un progressivo aumento del numero dei veicoli circolanti e dello sviluppo viario, corrisponde un progressivo aumento degli incendi boschivi. Si è, inoltre, osservato che molti incendi hanno inizio ai bordi di strade e di autostrade. Anche le linee ferroviarie possono essere responsabili dell’innesco di incendi, quando nelle cunette e nelle scarpate c’è dell’erba secca, che può prendere fuoco per le scintille sprigionate dalle ruote dei treni. Da tutto ciò si evince che non solo è necessario ripristinare il Corpo forestale, Può sembrare strano l’utilizzo del fuoco per controllare gli incendi. Si tratta di una tecnica già utilizzata negli Stati Uniti dai primi anni del secolo scorso. Essa mira a sfruttare la capacità di resistenza di alcune specie di piante nei confronti del fuoco. Pertanto, la loro presenza può salvaguardare il bosco da un incendio più distruttivo. Un esempio è dato dal comportamento del Pinus palustris, che allo stadio giovanile è poco più di un ciuffo di aghi verdi su un esile fusto, che rimane a lungo in questo stato, se circondato e sovrastato da erbe e arbusti, che lo adombrano e gli tolgono spazio. Quando però un incendio colpisce il suo territorio, con l’eliminazione delle piante concorrenti, questo tipo di pino cresce molto rapidamente, diventando in breve tempo una delle piante più alte del bosco. Come ci riesce? Grazie alla protezione della propria gemma apicale con un mazzetto di aghi lunghi circa 20 centimetri, che bruciano se attaccati dal fuoco, lasciando la gemma intatta alla loro base. Anche il cisto e il pino di Aleppo utilizzano il fuoco per svilupparsi. Lo stesso discorso vale per la quercia da sughero, la cui spessa corteccia serve proprio a proteggere la pianta dal fuoco, oppure per i castagni, i corbezzoli e le robinie, tutte piante capaci di sopravvivere a un incendio emettendo nuovi fusti dai ceppi residui o dalle radici. La tecnica del fuoco prescritto sfrutta tutto questo: serve a selezionare piante resistenti e autoctone e nel contempo a eliminare il carico di combustibile presente nel territorio, in modo che un incendio incontrollato possa raggiungere le chiome degli alberi. È chiaro che, per poterla applicare, sono necessarie condizioni meteorologiche favorevoli (vento e umidità) e uno studio accurato del territorio. Nei terreni dove da lungo tempo manca un incendio, può verificarsi il cosiddetto «paradosso del fuoco» cioè l’accumulo di arbusti, legno e foglie secche diventa un pericoloso combustibile, che per un evento accidentale (fulmini, forte siccità, azioni umane) può dare origine ad un incendio devastante e incontrollabile. Per evitare tutto questo, se non si vuole ricorrere alla tecnica del fuoco prescritto, a cui non tutti sono favorevoli perché comunque essa può alterare la flora e la fauna del sottobosco, è necessario ricorrere a un’asportazione meccanica dei carichi d’incendio e quindi un controllo costante del patrimonio boschivo, che da anni in Italia è abbandonato a sé stesso. (RNT) Una difesa naturale Piante fuocoresilienti
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