Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2022

La «neutralità carbonica» Le emissioni sono responsabilità per circa l’80% dei paesi del G20. Sono, pertanto, questi i primi che dovrebbero tagliare drasticamente le emissioni di gas a effetto serra. Purtroppo, tutti i paesi sembrano non guardare più in là dei propri interessi particolari (sia economici che politici), non agendo con l’urgenza e la concretezza che la questione richiederebbe. La Cina - in termini assoluti il maggiore inquinatore mondiale (con un 60% di energia consumata derivante dal carbone) - è disponibile ad agire, ma con tempistiche diverse (picco di emissioni entro il 2030, neutralità carbonica entro il 2060) e con Xi Jinping (lo scorso 11 novembre incoronato presidente a vita dalla sessione del Comitato centrale del Partito comunista cinese) che ha dato un pessimo esempio disertando sia il G20 di Roma sia Glasgow. Come ha fatto Vladimir Putin che per la Russia, grande esportatore di gas, ha fissato il termine al 2060. Ancora più dilatoria è l’India - terzo inquinatore mondiale e in procinto di diventare il paese più popolato della terra - che ha spostato la propria neutralità carbonica addirittura al 2070. Gli Stati Uniti del presidente Biden, secondi nella (triste) classifica dei maggiori inquinatori, si sono scusati per il comportamento del predecessore Donald Trump (che aveva ritirato il paese dagli Sopra: Glasgow, sede della Cop26, è stata un’impor tante città carbonifera come mostra questa foto storica. Qui: lo stop alla deforestazione è entrato in un accordo di Glasgow, ma è difficile credere al suo ri spetto. Emergenza clima MC © Souro Souvik / Unsplash © theglasgowstory.com accordi climatici di Parigi e diffuso fake news climatiche) e garantito il dimezzamento delle emissioni entro il 2030 e la neutralità entro il 2050. Come prevede il Green deal (il «patto verde» varato lo scorso 14 luglio) dell’Unione europea la quale deve però convincere la Polonia ultranazionalista, tuttora grande produttore di carbone e refrattaria alle direttive europee. A conti fatti, con gli attuali impegni politici (ma sarebbe meglio parlare di «promesse politiche»), entro il 2100 l’incremento della temperatura potrebbe essere tra 2,3 e 2,9 gradi Celsius, lontanissimo dal fatidico 1,5 (fonti Climate Action Tracker e Paris Reinforce). Accordi fragili e nessun miracolo Vista la complessità della situazione geopolitica, chiudere la Cop26 di Glasgow con un accordo di alto livello (cioè concreto, efficace e immediato) sarebbe stato un miracolo. E il miracolo non c’è stato. È stato firmato un patto e sono stati sottoscritti alcuni accordi, ma il risultato complessivo è deludente, se non addirittura fallimentare. Questo giudizio ha trovato conferma nelle parole di chiusura di António Guterres: «I testi approvati sono un compromesso - ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite -. Riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi. Fanno passi importanti, ma purtroppo la volontà politica collettiva non è bastata a superare alcune profonde contraddizioni». Ancora più laconico è stato Alok Sharma, presidente della Cop26: «Sono molto lieto di annunciare che ora abbiamo in vigore il patto per il clima di Glasgow, concordato tra tutte le parti qui presenti. […] Direi, tuttavia, che questa è una vittoria fragile. […] Il lavoro duro inizia ora». Vediamo - dunque - a cosa ha portato la ventiseiesima Conferenza delle parti. In primis, è stato confermato - a parole e con fatica - l’obiettivo di limitare a 1,5 gradi centigradi l’incremento della temperatura.

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